Silvio Lacasella
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Elena Pontiggia
1992

​Non c'è niente di più irreale della realtà. Silvio Lacasella lo dimostra con le sue opere, con quella sapiente alcimia con cui riesce a mescolare natura e visionarietà, oggettività e allucinazione, dopo averle assunte in parti uguali, anche se razionalmente incalcolabili.

Il soggetto dei suoi lavori sono i paesaggi: acque, terre, cieli inquadrati da un simulacro di architettura. Ma sono paesaggi su cui le ombre si sono depositate in modo da modificare il tempo, e albe, mattine, pomeriggi, tramonti hanno lasciato il posto a uno scenario da “Divina Commedia”, a una condizione di limbo virgiliano.

Le architetture con cui Lacasella circonda le sue apparizioni accentuano il distacco tra noi e l'immagine. Come il chiodo dipinto da Braque dentro la tela cubista sottolineava che il quadro è sempre una finzione, o meglio una realtà indipendente dalla vita, così queste finestre, queste nicchie, questi archi ribadiscono la dimensione fantastica dell'atto del vedere. Secondo gli assiomi del moderno, dipingere non significa per Lacasella vedere quello che c'è, ma far vedere quello che altrimenti non si vedrebbe.

Sarebbe facile a questo punto, fare della retorica con le emozioni che le sue opere suscitano, ma asteniamoci. Torniamo all'essenziale.

Lacasella, dunque, inventa i suoi paesaggi e reinventa la natura.
Ma perché, ci potremmo chiedere? Che cosa spinge l'ostinata e impaziente opera dell'incisore, del pittore a modificare i dati di partenza, riducendo draconianamente toni e colori, concentrandosi su pochi eventi?

Mi sembra che l'arte di Lacasella sia animata da due fondamentali urgenze filosofiche. La prima è quella di sottolineare, dechirichianamente, il demone di ogni cosa, vale a dire la dimensione inspiegabile della realtà. La seconda è quella di riproporsi la domanda di Heidegger: “Perché l'essere piuttosto che il nulla?”.

Così le sue distese marine, virate verso il verde del cielo, non rappresentano il mare, ma l'enigmaticità del mare. Così le linee dell'orizzonte appaiono nei suoi quadri perennemente in bilico tra la nostalgia dei bruni terrestri e il presentimento di grigi ultraterreni, tra la concretezza dell'esistere e la consapevolezza che tutto potrebbe essere diverso. O magari non essere affatto.

Apriamo una parentesi. Nell'iconografia rinascimentale l'apparenza del sacro era strettamente connessa all'architettura. Il trono della “Madonna col bambino”, la “Conversazione tra i santi” avevano come sfondo colonne, absidi, volte che simboleggiavano la Chiesa e il Paradiso.

Più tardi, il Cinquecento oserà pensare l'epifania del sacro a diretto contatto con la natura. La “Madonna del prato” del Bellini, la “Pala di Castelfranco” di Giorgione sono tra i primi esempi di una divinità che non abita tra le campate di una cattedrale, ma tra le famiglie delle erbe e dei fiori.
Torniamo ora all'iconografia di Lacasella,. E' come se qui i due elementi, architettura e natura si fossero sovrapposti. La natura si manifesta dentro all'architettura, conquista da sola una sua sacralità. Il sacro non è nella natura, ma è, per quanto possibile, la natura stessa.

Non bisogna pensare però a un panteismo trionfalistico. Al contrario, quello che le opere di Lacasella testimoniano è piuttosto la lontananza degli dei e dell'umanità dal teatro naturale.

Assente è l'uomo, sia l'Uomo-Dio o il santo, sia l'uomo senza qualità. Per questo la sacralità della natura è una sacralità dimessa, agitata, incapace di suscitare culti e devozione.

Con inquieta nobiltà esibisce la propria sofferenza. Avvolta dal nostro stupore malinconico, offre di sé uno spettacolo ora convulso, ora raccolto, ma percorso sempre da un'energia che può diventare furia. Anche dove le linee si acquietano non assistiamo mai ad uno stato di quiete, ma piuttosto a una sorta di sfinimento, di momentaneo collasso che prelude a nuove agitazioni, a nuove tempeste.

Lacasella dipinge così chiese laiche, dove si celebrano senza fasti, schiume e nuvole, montagne e ondate, aggredite da un'identica solitudine. E la sfinge sofoclea, come la melanconia dureriana, diventano allora le muse protettrici di questo artista, storico silenzioso di una malattia dell'essere che non possiamo non sentire come nostra. Elena Pontiggia 1992
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