Come cieli rovesciati avanzano stormi di nuvole rapprese dentro uno stagno d'acqua. Il pittore sembra non mutare il suo punto d'osservazione come si fosse egli scelto un'altura, un rialzo repentino della terra. Un gradino in mezzo alla pianura. Davanti al mare, davanti alla notte. Come volesse, e potesse, non andarsene mai da lì, anzi vivere su quel gradino del mondo in faccia all'immenso. E' per questo che la pittura di Silvio Lacasella ha una continuità, un tono, una morbidezza, un incanto che non sono mai la variazione del giorno ma appena dell'ora, perfino dell'attimo. Così è il suo disporsi davanti al tempo, molto spesso la notte nel momento del suo apparire, quando gli ultimi fuochi del giorno scompaiono come lingue di Pentecoste e l'aria e l'acqua si tuffano dentro il nero che tocca diverse e meno note estremità.
Prima poteva essere stato il buio, quel salire e scendere senza sosta una scala che era come un punto di vedetta, una sutura nera dentro la notte nera percorsa forse solo da qualche lampo fatto d'alga. Quella notte che mostrava di non avere fine, era una condizione dello spirito prima ancora che della meteorologia. L'occhio del pittore saliva, tendeva alle altezze nere della notte tempestosa, ma dopo che i lampi erano cessati e la fessura dello sguardo s'infilava lì dove sembrava essere un principio, o, ugualmente, all'altro capo del tempo, una fine.
Dopo, come d'incanto, l'occhio del pittore ha scoperto una notte diversa, più chiara. Una notte nel suo lento divenire, l'inizio delle cose, il loro manifestarsi come essenza, ricordo, sovrapposizione di luogo e non luogo. In questo spazio diverso, la luce ha cominciato a crescere, a salire un barlume di sole, anche un sole al tramonto, quando il giallo della sera strascicata si adagia, coprendola, sulla luce rimasta. E il pittore ha preso a dipingere questo esatto momento del tempo, luce che si ferma, si blocca, eppure lentamente si disperde nell'aria che è uno sfavillio. E sotto la luce, a comparire, il mare che è un'acqua raccolta, racchiusa proprio da quella luce inattesa ma diventata visione.
Non c'è nulla che adesso non possa manifestarsi, e il pittore è un viandante che ha trovato pace. Colui che guarda in silenzio la vastità, ne percepisce il moto circolare, allucinato, lentissimo, sembrerebbe invero immobile. Ma riesce, per quel miracolo che è dei poeti, a descriverne l'accento lieve, segreto, e che tuttavia fa pressione sulla superficie dell'acqua. Pressione che diventa materia, che è un tutt'uno, un'armonia, un petalo di rosa che spande cenere d'oro. Resterebbe l'atto del guardare altrove, ma altrove c'è solo un'altra rosa, un altro petalo, ancora cenere che allunga le sue dita nella notte con l'oro. E nient'altro che questo.
Marco Goldin 2004
Prima poteva essere stato il buio, quel salire e scendere senza sosta una scala che era come un punto di vedetta, una sutura nera dentro la notte nera percorsa forse solo da qualche lampo fatto d'alga. Quella notte che mostrava di non avere fine, era una condizione dello spirito prima ancora che della meteorologia. L'occhio del pittore saliva, tendeva alle altezze nere della notte tempestosa, ma dopo che i lampi erano cessati e la fessura dello sguardo s'infilava lì dove sembrava essere un principio, o, ugualmente, all'altro capo del tempo, una fine.
Dopo, come d'incanto, l'occhio del pittore ha scoperto una notte diversa, più chiara. Una notte nel suo lento divenire, l'inizio delle cose, il loro manifestarsi come essenza, ricordo, sovrapposizione di luogo e non luogo. In questo spazio diverso, la luce ha cominciato a crescere, a salire un barlume di sole, anche un sole al tramonto, quando il giallo della sera strascicata si adagia, coprendola, sulla luce rimasta. E il pittore ha preso a dipingere questo esatto momento del tempo, luce che si ferma, si blocca, eppure lentamente si disperde nell'aria che è uno sfavillio. E sotto la luce, a comparire, il mare che è un'acqua raccolta, racchiusa proprio da quella luce inattesa ma diventata visione.
Non c'è nulla che adesso non possa manifestarsi, e il pittore è un viandante che ha trovato pace. Colui che guarda in silenzio la vastità, ne percepisce il moto circolare, allucinato, lentissimo, sembrerebbe invero immobile. Ma riesce, per quel miracolo che è dei poeti, a descriverne l'accento lieve, segreto, e che tuttavia fa pressione sulla superficie dell'acqua. Pressione che diventa materia, che è un tutt'uno, un'armonia, un petalo di rosa che spande cenere d'oro. Resterebbe l'atto del guardare altrove, ma altrove c'è solo un'altra rosa, un altro petalo, ancora cenere che allunga le sue dita nella notte con l'oro. E nient'altro che questo.
Marco Goldin 2004