D:
Ad incipit: stupisco, intanto, che tu abbia accettato di parlare di te. Significa che consideri questa tua età, e il modo attuale della tua pittura, come un crinale di significato particolare? R:
Sì, ci ho pensato anch'io, è strano. Tranne qualche rara occasione, sinora non ho fatto fatica a tenermi lontano con le parole dalla mia pittura. Mentre mi piace moltissimo avvicinarmi a quella dei pittori che amo. Studiarla, scriverne, capirla, entrarci quasi col “corpo”.
Tentando l’autoironia, potrei dire che sino ad oggi questa mia predisposizione caratteriale forse è stata favorita dal fatto che raramente mi viene chiesto qualcosa. Quando però capita, in effetti, istintivamente cerco di cambiare discorso. Eppure, ho sempre creduto che quando è sincero e quando non si parla addosso - pur essendo evidentemente la sua una visione troppo ravvicinata per non riflettere una convinta parzialità di giudizio - l'artista sa di sé cose che nessun altro conosce. Quindi vale la pena ascoltarlo.
Per certi versi si può dire che la pittura e l'arte tutta sia come la voce. Non c'è dubbio che essa esca dal pensiero, ma è solo staccandosene che se ne sente il timbro. E il timbro, come sappiamo, cambia quasi valore alle parole. Questo, ad esempio, è ancor più evidente nella poesia, dove le parole, appunto, non hanno solo significati, ma anche soprattutto suoni.
Sbagliano, dunque, gli artisti che credono di essere gli unici veri conoscitori del proprio fare (non sono pochi. Consagra, per dirne uno), ma altrettanto sbagliano quei critici che li intendono, essenzialmente, come produttori di inconscio.
Il 2008 e gran parte del 2007 sono state per me due annate terribili. Non sono riuscito a terminare quasi neppure un quadro. Succede, dicono alcuni. Comunque a me, cui un impasse del genere non era mai accaduto, ha fatto un certo effetto, e probabilmente mi ha lasciato un segno profondo. Ora ho ripreso, come prima di quella cesura, però di buono c'è stato che in questi due anni (per forza di cose) ho riflettuto molto. Questa nostra conversazione arriva dunque al momento giusto. Diciamo che mi sento abbastanza preparato.
D:
All’inizio era l’incisione il tuo mondo. Hai sedotto tanti, con quel tuo mondo in bilico fra una misura esatta, quasi geometrica, e l’iperbole più avventurata, fra luce e ombra, fra conoscenza e mistero. Poi, improvviso (e, se mi permetti, mai abbastanza deprecato), il passo oltre quella perfezione, quella straordinaria sapienza che era insieme tecnica, fabrile e concettuale: e l’incisione venne lasciata da un canto. Morandi, lo sai bene, concentrò in un pugno d’anni le sue acqueforti: tra il 1927, 1928, e il 1934. Poi quasi più nulla. È un impegno, quello sulla lastra, che ha da essere quotidiano, o non essere; ovvero è la pittura ad aver scalzato, per te, l’incisione? R:
Me lo sento ripetere. Io per primo, mi chiedo ancora come mai ho smesso. E non gradualmente. Così, all'improvviso, dopo dodici anni di sola incisione. Dopo aver terminato circa trecento lastre, alcune delle quali con una tiratura di due o tre copie al massimo.
Come non bastasse, ho interrotto quando cominciavano finalmente ad arrivare buone soddisfazioni. Non so. Non so come rispondere. Anche se di motivazioni ne ho più d'una e, in linea di massima, tutte convincenti. Ma non so se siano, queste, le motivazioni “vere”. Comunque, la risposta che mi sono dato è che con l'incisione la componente tecnica negli ultimi tempi andava sottraendo energia all'invenzione. E cerco di spiegarmi.
La bellezza e il fascino dell'incisione è tale proprio perché al suo interno l'immagine pare trattenere il percorso tecnico che l'ha portata alla luce. Certo, accade anche in pittura o con la scultura, ma nell'incisione il bulino, la bacinella dell'acido, la lastra in metallo, il torchio che preme la carta umida nei solchi incisi, pieni d'inchiostro calcografico come fossero canali d'irrigazione, rimangono in ciò che vediamo. Non possiamo scordarcene. Per chi questo lo sa cogliere naturalmente.
Solo che a volte - a volte spesso - il processo esecutivo trascina l'immagine a traino. A me era successo. Mi sono allarmato e ho smesso.
E poi, è anche vero che volevo ricominciare con la pittura. Ed è stato decisamente faticoso ripartire praticamente da zero. All'inizio tentavo di ricreare le medesime atmosfere. I medesimi contrasti, con le strutture architettoniche o geometriche in primo piano. Ma con risultati assai diversi. Abbastanza deludenti.
Per non fracassarmi al suolo ho dovuto essenzialmente eliminare, eliminare e ancora eliminare. E' rimasto quanto prima era nello sfondo. La parte apparentemente più leggera. Ora, dell'incisione credo di aver conservato non altro che le misure. I miei dipinti, infatti, sono generalmente piccoli. Questo mi è stato rimproverato (Morandi e Licini, Klee e Vermeer non sono più qui a difendermi, d’altronde…).
Di recente però ho preso coraggio, e i centimetri sono aumentati…
E poi attraverso la pittura mi interessava ritrovare la varietà cromatica, lo spessore materico, l'immediatezza esecutiva...
D:
Una volta hai detto di coloro che consideravi tuoi maestri, mettendo insieme Michelangelo, Friedrich, Hokusai, forse qualcun altro ancora (non so se in quell’elenco annotasti anche il nome di Giovanni Bellini, e di Cima: ma le loro pale mi sembrarono, allora, esserti state anch’esse di guida). La terribilità di Michelangelo, il volo leggero di Hokusai, soprattutto l’ala romantica di Friedrich, mi sembrano oggi infinitamente lontani. Hai allontanato il sogno, e hai preso al suo posto un segno povero che non ha nome, come forse direbbe Klee…
R:
Fortificare la propria coscienza visiva è essenziale, direi determinante. Sia per chi l'arte la produce, che per chi la guarda. Altrimenti l'istinto, lasciato solo, non saprebbe da che parte andare, tanto meno esprimere compiutamente la propria autonomia di giudizio. Però, alla fine, si vive di passioni. Passioni “sorgive” e non c'è consapevolezza culturale che possa far invertire il loro flusso. Poi magari col tempo ci si ricrede, ma questo è un altro discorso.
I miei amori sono stati intensi. Ai nomi qui citati aggiungerei Goya maturo e tardo, e l'ultimo Tiziano: quando il loro colore si alza, facendosi corteccia; Testori direbbe “carne”.
È pur vero che il tempo ci cambia, e non solo fisicamente, anche se è difficile ammetterlo. Per dire, lo si nota quando a distanza di anni rivediamo un'opera che da sempre ci portiamo nel cuore. Essa cambia, ci sembra diversa, mentre siamo cambiati noi che la stiamo osservando.
Comunque, questi autori li sento ancora vicini, vicinissimi, compresi Cima e Bellini, formidabili “tecnici” di una luce veneta a cui non saprei rinunciare. Ma a tante cose non saprei rinunciare. Avvitata in me sento l'arte orientale. Interesse iniziato con la conoscenza di Hokusai. Il ritmo, la cadenza, l'andare per cicli, il gesto, i maestri calligrafi, quel lento avvicinamento verso un punto interiore e irraggiungibile. Elementi di contatto, questi ultimi, con i pittori del Romanticismo, con Friedrich, ad esempio.
Con Klee, come con altri fra loro diversissimi - penso a Burri, ad Afro o a Fautrier, per dirne alcuni - provo emozioni assai simili. Faccio fatica a spiegarmi con poche parole. Mi paiono “particolari” visti al microscopio, trasmessi con un linguaggio più vicino al mio. Ma, grazie al cielo, non mi attrae solo ciò che ipoteticamente potrebbe assomigliarmi. Sono infatti convinto che molte cose importanti entrino in noi da porte secondarie, lasciate volutamente aperte.
D:
Ma non hai risposto: hai coscienza, certo – perché tutto in te è consapevolmente accettato – che, con il sogno, si è allontanata una dimensione che è appartenuta alla tua formazione. Hai preso in cambio un segno che non mi pare tanto “crampo neutro della mano”, come fu definito il segno di Capogrossi, ma, licinianamente, vettore, anche, di una tua memoria, intrisa insieme di realtà e di cultura visiva. Un segno, comunque, povero, spogliato d’orgoglio, davvero primevo … R:
Licini, il suo segno, le cancellature, i ripensamenti. I lunghi e silenziosi dialoghi interiori. Quasi a voler ricordare meglio. Infatti, quando parlo di “gesto” non intendo “automatismo” segnico. Necessariamente, io lo devo sempre ricollegare a qualcosa che a me sembra di riconoscere. Parlavo di punto “irraggiungibile”.
La memoria, certo. Sempre lei, la memoria. Una memoria talmente lontana che pare ricordare anche ciò che non abbiamo vissuto. Che sia memoria o sogno? O che sia entrata in noi filtrata da chi ci ha preceduto? Credo che anche la memoria, talvolta, imbocchi strade segrete.
Il fatto stesso che io non riesca ad iniziare un quadro senza pensare di impaginarlo figurativamente, è indicativo. Eppure non mi sento un pittore legato indissolubilmente alla figurazione (neppure quando, negli anni novanta, i soggetti parevano contenere una trama più precisa); così come, ancor meno, mi sento un pittore astratto.
Oggi, gli unici elementi ancora riconoscibili sono un cielo, un mare, la linea dell'orizzonte. Una linea talvolta obliqua, come la devono vedere gli uccelli quando volano. E non di rado, strada facendo, questi elementi di riconoscibilità vengono quasi assorbiti dal colore e da altri pensieri, e di quell'iniziale traccia figurativa rimane ben poco. Ma mi serve. E' la mia pagina. Il mio mondo. Inoltre, dover tenere presente che quelle in alto sono nuvole e quella sotto è acqua, mi obbliga a mantenere una disciplina che si trasforma in tensione.
A veder bene, anche questo fa parte dell'arte orientale. Si diceva dei maestri calligrafi: la libertà del segno all'interno di una severità compositiva. Nell'ideogramma, apparentemente solo funzionale, vi è tutta la filosofia zen. Altra cosa, davvero, e infinitamente distante da me, è il “crampo neutro della mano” di Capogrossi.
D:
Lo spazio, infinito, che è figurato nelle minime dimensioni delle tue opere; le luci che vi balenano; il ritmo cui si piegano le ‘figure’ – nubi, folate di venti, orizzonti – che scivolano, franano, s’impennano in quello spazio; e il segno – talora, adesso, un segno che si identifica con un timbro cromatico breve e dissonante nel concerto dei valori totalmente accordati (un rosso improvviso, un arancio, un giallo): di tutto questo mi pare nutrirsi la tua pittura. Ma ti ascolto ora ripetere più di una volta un termine – materia – che non riesco a legare alla tua esperienza, almeno nella nozione corrente che essa assume nella nostra cultura visiva tardo-informale
R:
Se guardiamo al passato, sono molti gli artisti che hanno dato corpo al loro colore, creando sulla tela strati e sovrapposizioni che a quel tempo dovevano sicuramente risultare ancor più impressionanti di quanto appaiono oggi: da Rembrandt a Serodine, per dire di due pittori che ho guardato a lungo. Ma anche i quadri di Turner sono gonfi di materia, specie quelli screpolati e quasi bianchi dipinti negli ultimi anni. Ricordo di aver letto che tra i contemporanei di Rembrandt vi era chi sosteneva che in alcuni suoi ritratti il colore fosse così spesso “che li si poteva prendere per il naso”. Materia senza l'orgoglio della materia; materia come ricerca di una strada... Questo per dire che l'uso che se ne fa il più delle volte risponde ad un'esigenza emotiva ed espressiva, senza dover essere collegato in modo diretto e vincolante al solo informale.
Per me la materia non è il “soggetto”, ma un tramite per meglio rappresentarlo. Nello spessore, specie quando questo è ancora umido, trovo ad esempio la possibilità di affondare il segno.
Eccoti confessata, senza premeditazione, un'altra strada della mia ricerca che di sicuro mi è servita da traccia nella pratica dell'incisione. Il segno che oggi penetra il grumo materico si comporta come ieri, come quando cioè affondava nella lastra calcografica, provocando solchi dentro ai quali poi, solitamente, inserisco un colore.
E guarda caso, anche la materia, come l'incisione, occorre tenerla a bada, altrimenti ti prende la mano e ne approfitta. “Inventa” per conto suo.. Adesso mi concedo una citazione, ed è la prima: “Non è un'arte quella che ottiene risultati soltanto casuali”: l'ha scritto Seneca, nelle Epistole Morali.
Evitare il “caso” è diventata dunque per me quasi un'ossessione. Una cosa è l'irripetibilità del gesto, un'altra è l' “effetto” irripetibile: il primo riesce a trasmettere visivamente un particolare stato d'animo, l'altro se lo inventa.
D:
Un’ultima cosa: la tua testimonianza d’oggi trasuda da ogni suo punto un’autocoscienza forte e determinata degli atti formativi che concorrono alla genesi della tua pittura. Quanto pensi che conti, in questa tua attitudine pensosa, la riflessione che vai da anni sviluppando sulle pagine, soprattutto, del “Giornale di Vicenza”, dove svolgi lunghi ragionamenti sugli argomenti e gli artisti che ti stanno più a cuore?
R:
Scrivo per meglio capire. Non c'è un altro motivo. Il nostro vivere, fatto di scadenze, di date, di fretta, di consumi, di tendenze di mercato e quant'altro, ci suggerisce di “sfogliare”, più che di leggere. Mi sembra abbastanza evidente, basta guardarsi attorno. Il fatto è che non si vive di sole immagini e questo, detto da un pittore, sembra quasi paradossale. Però ne sono convinto.
Mai come adesso le immagini non solo ci vengono incontro, ma il più delle volte ci vengono addosso. Con una forza d'urto impressionante, condizionando in alcune circostanze la nostra capacità di giudizio.
Meno che meno, si può però vivere di sole parole. Cosa questa, ad esempio, che i non vedenti sanno bene, tanto che la loro immaginazione supera la nostra.
D:
E dunque?
R:
Dunque, occorre capire. Capire come mai, nonostante tutto, qualcosa non ci viene “addosso”, ma ci attrae irresistibilmente. E' quella che Alan Bennett chiama “aura”. In effetti è così. Quando si entra nella sala di un museo, stracolma di capolavori, il nostro sguardo, tra tante, è subito attratto da una certa immagine e non da un'altra, magari molto più celebre di questa e appesa a pochi metri di distanza. E' la dimostrazione che nessun faro può competere con la luce interiore. Questo è il segreto dell'arte. Questa è l' ”aura”. Allora io faccio una cosa semplicissima e al contempo quanto mai complicata, cerco di capire perché mi attrae, studiando a fondo l'artista. Mi interessa tutto, sapere dei suoi esordi, della sua morte, aneddoti, tutto insomma. Perché l'arte, com'è ovvio, non è l'espressione del solo talento.
Inoltre - e questo è il punto principale - so che quel quadro, che tanto mi ha attratto, influenzerà il mio modo di vedere le cose e dunque, di riflesso, la mia pittura. Ecco perché scrivo: per meglio capire.
Confido sia davvero questa l'ultima domanda. Temo, infatti, che tu adesso mi possa chiedere: “Cos'hai capito in tutti questi anni?”. Mi metteresti in serio imbarazzo, anche se probabilmente risponderei senza problemi “Poco. Ammetto di aver capito molto meno di quanto all'inizio speravo. Però quel poco lo sento mio. Mi appartiene”.
Ad incipit: stupisco, intanto, che tu abbia accettato di parlare di te. Significa che consideri questa tua età, e il modo attuale della tua pittura, come un crinale di significato particolare? R:
Sì, ci ho pensato anch'io, è strano. Tranne qualche rara occasione, sinora non ho fatto fatica a tenermi lontano con le parole dalla mia pittura. Mentre mi piace moltissimo avvicinarmi a quella dei pittori che amo. Studiarla, scriverne, capirla, entrarci quasi col “corpo”.
Tentando l’autoironia, potrei dire che sino ad oggi questa mia predisposizione caratteriale forse è stata favorita dal fatto che raramente mi viene chiesto qualcosa. Quando però capita, in effetti, istintivamente cerco di cambiare discorso. Eppure, ho sempre creduto che quando è sincero e quando non si parla addosso - pur essendo evidentemente la sua una visione troppo ravvicinata per non riflettere una convinta parzialità di giudizio - l'artista sa di sé cose che nessun altro conosce. Quindi vale la pena ascoltarlo.
Per certi versi si può dire che la pittura e l'arte tutta sia come la voce. Non c'è dubbio che essa esca dal pensiero, ma è solo staccandosene che se ne sente il timbro. E il timbro, come sappiamo, cambia quasi valore alle parole. Questo, ad esempio, è ancor più evidente nella poesia, dove le parole, appunto, non hanno solo significati, ma anche soprattutto suoni.
Sbagliano, dunque, gli artisti che credono di essere gli unici veri conoscitori del proprio fare (non sono pochi. Consagra, per dirne uno), ma altrettanto sbagliano quei critici che li intendono, essenzialmente, come produttori di inconscio.
Il 2008 e gran parte del 2007 sono state per me due annate terribili. Non sono riuscito a terminare quasi neppure un quadro. Succede, dicono alcuni. Comunque a me, cui un impasse del genere non era mai accaduto, ha fatto un certo effetto, e probabilmente mi ha lasciato un segno profondo. Ora ho ripreso, come prima di quella cesura, però di buono c'è stato che in questi due anni (per forza di cose) ho riflettuto molto. Questa nostra conversazione arriva dunque al momento giusto. Diciamo che mi sento abbastanza preparato.
D:
All’inizio era l’incisione il tuo mondo. Hai sedotto tanti, con quel tuo mondo in bilico fra una misura esatta, quasi geometrica, e l’iperbole più avventurata, fra luce e ombra, fra conoscenza e mistero. Poi, improvviso (e, se mi permetti, mai abbastanza deprecato), il passo oltre quella perfezione, quella straordinaria sapienza che era insieme tecnica, fabrile e concettuale: e l’incisione venne lasciata da un canto. Morandi, lo sai bene, concentrò in un pugno d’anni le sue acqueforti: tra il 1927, 1928, e il 1934. Poi quasi più nulla. È un impegno, quello sulla lastra, che ha da essere quotidiano, o non essere; ovvero è la pittura ad aver scalzato, per te, l’incisione? R:
Me lo sento ripetere. Io per primo, mi chiedo ancora come mai ho smesso. E non gradualmente. Così, all'improvviso, dopo dodici anni di sola incisione. Dopo aver terminato circa trecento lastre, alcune delle quali con una tiratura di due o tre copie al massimo.
Come non bastasse, ho interrotto quando cominciavano finalmente ad arrivare buone soddisfazioni. Non so. Non so come rispondere. Anche se di motivazioni ne ho più d'una e, in linea di massima, tutte convincenti. Ma non so se siano, queste, le motivazioni “vere”. Comunque, la risposta che mi sono dato è che con l'incisione la componente tecnica negli ultimi tempi andava sottraendo energia all'invenzione. E cerco di spiegarmi.
La bellezza e il fascino dell'incisione è tale proprio perché al suo interno l'immagine pare trattenere il percorso tecnico che l'ha portata alla luce. Certo, accade anche in pittura o con la scultura, ma nell'incisione il bulino, la bacinella dell'acido, la lastra in metallo, il torchio che preme la carta umida nei solchi incisi, pieni d'inchiostro calcografico come fossero canali d'irrigazione, rimangono in ciò che vediamo. Non possiamo scordarcene. Per chi questo lo sa cogliere naturalmente.
Solo che a volte - a volte spesso - il processo esecutivo trascina l'immagine a traino. A me era successo. Mi sono allarmato e ho smesso.
E poi, è anche vero che volevo ricominciare con la pittura. Ed è stato decisamente faticoso ripartire praticamente da zero. All'inizio tentavo di ricreare le medesime atmosfere. I medesimi contrasti, con le strutture architettoniche o geometriche in primo piano. Ma con risultati assai diversi. Abbastanza deludenti.
Per non fracassarmi al suolo ho dovuto essenzialmente eliminare, eliminare e ancora eliminare. E' rimasto quanto prima era nello sfondo. La parte apparentemente più leggera. Ora, dell'incisione credo di aver conservato non altro che le misure. I miei dipinti, infatti, sono generalmente piccoli. Questo mi è stato rimproverato (Morandi e Licini, Klee e Vermeer non sono più qui a difendermi, d’altronde…).
Di recente però ho preso coraggio, e i centimetri sono aumentati…
E poi attraverso la pittura mi interessava ritrovare la varietà cromatica, lo spessore materico, l'immediatezza esecutiva...
D:
Una volta hai detto di coloro che consideravi tuoi maestri, mettendo insieme Michelangelo, Friedrich, Hokusai, forse qualcun altro ancora (non so se in quell’elenco annotasti anche il nome di Giovanni Bellini, e di Cima: ma le loro pale mi sembrarono, allora, esserti state anch’esse di guida). La terribilità di Michelangelo, il volo leggero di Hokusai, soprattutto l’ala romantica di Friedrich, mi sembrano oggi infinitamente lontani. Hai allontanato il sogno, e hai preso al suo posto un segno povero che non ha nome, come forse direbbe Klee…
R:
Fortificare la propria coscienza visiva è essenziale, direi determinante. Sia per chi l'arte la produce, che per chi la guarda. Altrimenti l'istinto, lasciato solo, non saprebbe da che parte andare, tanto meno esprimere compiutamente la propria autonomia di giudizio. Però, alla fine, si vive di passioni. Passioni “sorgive” e non c'è consapevolezza culturale che possa far invertire il loro flusso. Poi magari col tempo ci si ricrede, ma questo è un altro discorso.
I miei amori sono stati intensi. Ai nomi qui citati aggiungerei Goya maturo e tardo, e l'ultimo Tiziano: quando il loro colore si alza, facendosi corteccia; Testori direbbe “carne”.
È pur vero che il tempo ci cambia, e non solo fisicamente, anche se è difficile ammetterlo. Per dire, lo si nota quando a distanza di anni rivediamo un'opera che da sempre ci portiamo nel cuore. Essa cambia, ci sembra diversa, mentre siamo cambiati noi che la stiamo osservando.
Comunque, questi autori li sento ancora vicini, vicinissimi, compresi Cima e Bellini, formidabili “tecnici” di una luce veneta a cui non saprei rinunciare. Ma a tante cose non saprei rinunciare. Avvitata in me sento l'arte orientale. Interesse iniziato con la conoscenza di Hokusai. Il ritmo, la cadenza, l'andare per cicli, il gesto, i maestri calligrafi, quel lento avvicinamento verso un punto interiore e irraggiungibile. Elementi di contatto, questi ultimi, con i pittori del Romanticismo, con Friedrich, ad esempio.
Con Klee, come con altri fra loro diversissimi - penso a Burri, ad Afro o a Fautrier, per dirne alcuni - provo emozioni assai simili. Faccio fatica a spiegarmi con poche parole. Mi paiono “particolari” visti al microscopio, trasmessi con un linguaggio più vicino al mio. Ma, grazie al cielo, non mi attrae solo ciò che ipoteticamente potrebbe assomigliarmi. Sono infatti convinto che molte cose importanti entrino in noi da porte secondarie, lasciate volutamente aperte.
D:
Ma non hai risposto: hai coscienza, certo – perché tutto in te è consapevolmente accettato – che, con il sogno, si è allontanata una dimensione che è appartenuta alla tua formazione. Hai preso in cambio un segno che non mi pare tanto “crampo neutro della mano”, come fu definito il segno di Capogrossi, ma, licinianamente, vettore, anche, di una tua memoria, intrisa insieme di realtà e di cultura visiva. Un segno, comunque, povero, spogliato d’orgoglio, davvero primevo … R:
Licini, il suo segno, le cancellature, i ripensamenti. I lunghi e silenziosi dialoghi interiori. Quasi a voler ricordare meglio. Infatti, quando parlo di “gesto” non intendo “automatismo” segnico. Necessariamente, io lo devo sempre ricollegare a qualcosa che a me sembra di riconoscere. Parlavo di punto “irraggiungibile”.
La memoria, certo. Sempre lei, la memoria. Una memoria talmente lontana che pare ricordare anche ciò che non abbiamo vissuto. Che sia memoria o sogno? O che sia entrata in noi filtrata da chi ci ha preceduto? Credo che anche la memoria, talvolta, imbocchi strade segrete.
Il fatto stesso che io non riesca ad iniziare un quadro senza pensare di impaginarlo figurativamente, è indicativo. Eppure non mi sento un pittore legato indissolubilmente alla figurazione (neppure quando, negli anni novanta, i soggetti parevano contenere una trama più precisa); così come, ancor meno, mi sento un pittore astratto.
Oggi, gli unici elementi ancora riconoscibili sono un cielo, un mare, la linea dell'orizzonte. Una linea talvolta obliqua, come la devono vedere gli uccelli quando volano. E non di rado, strada facendo, questi elementi di riconoscibilità vengono quasi assorbiti dal colore e da altri pensieri, e di quell'iniziale traccia figurativa rimane ben poco. Ma mi serve. E' la mia pagina. Il mio mondo. Inoltre, dover tenere presente che quelle in alto sono nuvole e quella sotto è acqua, mi obbliga a mantenere una disciplina che si trasforma in tensione.
A veder bene, anche questo fa parte dell'arte orientale. Si diceva dei maestri calligrafi: la libertà del segno all'interno di una severità compositiva. Nell'ideogramma, apparentemente solo funzionale, vi è tutta la filosofia zen. Altra cosa, davvero, e infinitamente distante da me, è il “crampo neutro della mano” di Capogrossi.
D:
Lo spazio, infinito, che è figurato nelle minime dimensioni delle tue opere; le luci che vi balenano; il ritmo cui si piegano le ‘figure’ – nubi, folate di venti, orizzonti – che scivolano, franano, s’impennano in quello spazio; e il segno – talora, adesso, un segno che si identifica con un timbro cromatico breve e dissonante nel concerto dei valori totalmente accordati (un rosso improvviso, un arancio, un giallo): di tutto questo mi pare nutrirsi la tua pittura. Ma ti ascolto ora ripetere più di una volta un termine – materia – che non riesco a legare alla tua esperienza, almeno nella nozione corrente che essa assume nella nostra cultura visiva tardo-informale
R:
Se guardiamo al passato, sono molti gli artisti che hanno dato corpo al loro colore, creando sulla tela strati e sovrapposizioni che a quel tempo dovevano sicuramente risultare ancor più impressionanti di quanto appaiono oggi: da Rembrandt a Serodine, per dire di due pittori che ho guardato a lungo. Ma anche i quadri di Turner sono gonfi di materia, specie quelli screpolati e quasi bianchi dipinti negli ultimi anni. Ricordo di aver letto che tra i contemporanei di Rembrandt vi era chi sosteneva che in alcuni suoi ritratti il colore fosse così spesso “che li si poteva prendere per il naso”. Materia senza l'orgoglio della materia; materia come ricerca di una strada... Questo per dire che l'uso che se ne fa il più delle volte risponde ad un'esigenza emotiva ed espressiva, senza dover essere collegato in modo diretto e vincolante al solo informale.
Per me la materia non è il “soggetto”, ma un tramite per meglio rappresentarlo. Nello spessore, specie quando questo è ancora umido, trovo ad esempio la possibilità di affondare il segno.
Eccoti confessata, senza premeditazione, un'altra strada della mia ricerca che di sicuro mi è servita da traccia nella pratica dell'incisione. Il segno che oggi penetra il grumo materico si comporta come ieri, come quando cioè affondava nella lastra calcografica, provocando solchi dentro ai quali poi, solitamente, inserisco un colore.
E guarda caso, anche la materia, come l'incisione, occorre tenerla a bada, altrimenti ti prende la mano e ne approfitta. “Inventa” per conto suo.. Adesso mi concedo una citazione, ed è la prima: “Non è un'arte quella che ottiene risultati soltanto casuali”: l'ha scritto Seneca, nelle Epistole Morali.
Evitare il “caso” è diventata dunque per me quasi un'ossessione. Una cosa è l'irripetibilità del gesto, un'altra è l' “effetto” irripetibile: il primo riesce a trasmettere visivamente un particolare stato d'animo, l'altro se lo inventa.
D:
Un’ultima cosa: la tua testimonianza d’oggi trasuda da ogni suo punto un’autocoscienza forte e determinata degli atti formativi che concorrono alla genesi della tua pittura. Quanto pensi che conti, in questa tua attitudine pensosa, la riflessione che vai da anni sviluppando sulle pagine, soprattutto, del “Giornale di Vicenza”, dove svolgi lunghi ragionamenti sugli argomenti e gli artisti che ti stanno più a cuore?
R:
Scrivo per meglio capire. Non c'è un altro motivo. Il nostro vivere, fatto di scadenze, di date, di fretta, di consumi, di tendenze di mercato e quant'altro, ci suggerisce di “sfogliare”, più che di leggere. Mi sembra abbastanza evidente, basta guardarsi attorno. Il fatto è che non si vive di sole immagini e questo, detto da un pittore, sembra quasi paradossale. Però ne sono convinto.
Mai come adesso le immagini non solo ci vengono incontro, ma il più delle volte ci vengono addosso. Con una forza d'urto impressionante, condizionando in alcune circostanze la nostra capacità di giudizio.
Meno che meno, si può però vivere di sole parole. Cosa questa, ad esempio, che i non vedenti sanno bene, tanto che la loro immaginazione supera la nostra.
D:
E dunque?
R:
Dunque, occorre capire. Capire come mai, nonostante tutto, qualcosa non ci viene “addosso”, ma ci attrae irresistibilmente. E' quella che Alan Bennett chiama “aura”. In effetti è così. Quando si entra nella sala di un museo, stracolma di capolavori, il nostro sguardo, tra tante, è subito attratto da una certa immagine e non da un'altra, magari molto più celebre di questa e appesa a pochi metri di distanza. E' la dimostrazione che nessun faro può competere con la luce interiore. Questo è il segreto dell'arte. Questa è l' ”aura”. Allora io faccio una cosa semplicissima e al contempo quanto mai complicata, cerco di capire perché mi attrae, studiando a fondo l'artista. Mi interessa tutto, sapere dei suoi esordi, della sua morte, aneddoti, tutto insomma. Perché l'arte, com'è ovvio, non è l'espressione del solo talento.
Inoltre - e questo è il punto principale - so che quel quadro, che tanto mi ha attratto, influenzerà il mio modo di vedere le cose e dunque, di riflesso, la mia pittura. Ecco perché scrivo: per meglio capire.
Confido sia davvero questa l'ultima domanda. Temo, infatti, che tu adesso mi possa chiedere: “Cos'hai capito in tutti questi anni?”. Mi metteresti in serio imbarazzo, anche se probabilmente risponderei senza problemi “Poco. Ammetto di aver capito molto meno di quanto all'inizio speravo. Però quel poco lo sento mio. Mi appartiene”.