Silvio Lacasella
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Flaminio Gualdoni
1992

Sono quadri in palmo di mano, oppure crescenti per dismisure verticali a chiedere ragioni al cielo, a una luce di sorgente metafisica. Così, le prove recenti di Silvio Lacasella. Prove pittoriche, come quasi sempre negli anni recentissimi, ma figlie della concentrazione introversa, del gesto breve e risentitissimo, dell'avvertimento lucido e senza riserve della pratica incisoria, esclusiva della ragione sua penultima e ora complice severa del corso nuovo d'esperienza.

Nascono da un ritegno pudico al far grande per enfasi retorica, per esibizionismo assertivo, per pura gigioneria, che è di troppe delle cose d'oggi. Portano in dote la cautela, e una lentezza sprezzata e assaporata, antieroicamente poetica: vanno in cerca d'intensità, di vertigini e straniamenti non teatrali, di naufragi dolci e privatissimi. E ragionano d'antico, o meglio d'una condizione, e prospettiva, e proiezione storica sedimentata, che noi chiamiamo pittura. Fatta di temi e generi e insieme di messe in mora del codice, d'echi ascoltati con amore non ortopedico e di ansie d'originalità non stilistica, ma di sostanza.

Lacasella ragiona primariamente di paesaggio: meglio, d'un orizzonte introvertito e nutrito di distillazioni anche letterarie che faccia da “tonos” a un corso d'affetti fluente, variante, che conosce accensioni e spossatezze, cenni di furore e disincanti che verrebbe da dire leopardiani. S'è dato uno schema retorico elementare ma preciso, a sua volta di radice antica, la finestra, che è insieme messa in distanza e clima di “camera incantata”, presenza a Sé e trascorrimento possibile fino allo straniamento. La finestra, che è anche sdoppiamento del primo piano, e condizione necessaria per astrarre dal coinvolgimento emotivo diretto e travolgente, per riaffermare il primato del momento riflessivo, e formativo, rispetto al fuoco dell'intuizione. “Interno di Paesaggio”, d'altronde, è il titolo ricorrente che l'artista dà alle sue opere, nascenti per sequenze tematiche e problematiche serrate, in un continuo di forte spessore concettuale.

Così Lacasella “vede” il paesaggio, le gore inamene e cupe e le orografie tortuose su cui s'impenna un cielo estraneo e illividito, abitato da aurore virate e da tempeste di colori acerbi, disagiati, melanconici, venati appena di lucori lontani. Congeniti ai capricci guardeschi, lunatici come i Friedrich e i Blechen tempestosi – ma senza speranze di luce mediterranea, senza miti; alleviati appena da una vena ironica sotterranea ma persistente, che esorcizza l'estroversione del dramma - questi dipinti “insoddisfatti” - ne altrimenti potrebbe essere – vivono di una sorta di atmosfera ominosa, ma non disperata. Essi cercano una sorta di impervia lucidità linguistica, renitente a proclami allusioni simboleggiamenti, proprio per puntare a una reidentificazione – oggi inattualissima - tra espressione e forma, immagine. Ne è prova conclamata non solo l'atteggiarsi orgoglioso e l' “understatement” aristocratico del colore, rastremato a un ventaglio di toni abbassato al mormorio, ma anche la conduzione sua avvertita e nitida, quando anche si concede fremiti irritati, rialzi grumosi, baluginii tumidi, materismi che nulla mantengono della retorica pittoricistica, e pittoresca, che pure sarebbe lì, a un passo.

E' così, d'altronde, pur nei modi affatto differenziati dalla natura delle immagini, anche nelle incisioni, le cose sue finora più note. L'adesione tecnica piena al bagaglio disciplinare, ai codici fabrili correnti, ha in vista deroghe assai più profonde che mere varianti stilistiche. E il tema, il motivo ossessivo iterato ed esplorato fino alle dismisure visionarie, è il medesimo, sempre. Altri aromi magari vi alitano (penso a certi titoli: “Viaggio nella notte”, “Cielo del Tintoretto”, “Homaggio a Hokusai”, “Omaggio a Klinger”) , ma il medesimo senso di claustrofobia addolcita, di disincantata inattingibilità dell'orizzonte. Difficile è il discrimine che Lacasella tenta, formalmente a ridosso ma ben lontano in radice, da riferimenti più ovvii di genere e di denominazione formale. Ma è una scommessa, una partita, tra le poche che val la pena oggi di perseguire, per non cedere alla vacuità tutta mondana del sistema artistico.


Flaminio Gualdoni 1992


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