Entro le scure ombre di una silenziosa e scura notte, o di un angoscioso sogno, appaiono dei frammenti di paesaggi: come se su uno schermo incombente, su una vicina parete, si muovessero lentamente onde di acque e di nuvole: ma un intreccio di sottilissime colonne, cadute da qualche aerea costruzione, o di esili bastoni, residui abbandonati di un gioco cinese, o di lunghissimi tubi, toglie ogni illusione di immagine evocativa, e riporta ad una realtà e a uno spazio che ci inquietano ancora di più, poiché fan nascere, proprio nell'essere reali, il fiore di un mistero. Non sappiamo insomma che cosa avvenga in queste incisioni di Silvio Lacasella, che cosa rappresentino.
Questo tentativo di descrizione da già più di una traccia, o più di una risposta: ma non serve seguirle, poiché non si sa, dove porterebbero; e la verità è che in quelle incisioni non deve avvenire niente, né esse devono dare rappresentazione di alcunché: sono, nella loro ambiguità, nella loro bellezza, nella loro atmosfera angosciosa e notturna, nella loro fortissima tensione e moralità, tecnica.
Sembrano solo, di questa capacità tecnica, cantare la perfezione; e cantano la solitudine. Lacasella non dipinge, non so se disegna, ma forse no; solo incide; è un incisore puro; e si è tanto avanzato nella padronanza del linguaggio incisorio, che questo gli basta; aderisce perfettamente alla sua immaginazione e al suo mondo; dice tutto quello che il suo impulso poetico vuol dire.
“Viaggio al termine della notte” ha scritto, interpretando queste opere, Vittorio Sgarbi, che stima molto Lacasella, al pari di me; come avviene spesso, anche per altri artisti, tra lui e me, quasi medianicamente o per quelle fatalità che ci fanno percorrere, nella foresta intricata e selvaggia entro cui tutti ci aggiriamo, gli stessi sentieri. Ma sebbene la notte sembri al termine, quando i sogni sono più veloci, numerosi e intensi, pure essa non termina mai. E certo entro di essa Lacasella compie un viaggio, si aggira tra i suoi padiglioni deserti, tra le sue fluttuanti ombre, tra i lampi di luce, entro gli incomprensibili spazi.
Forse Lacasella rappresenta la nostalgia del paesaggio; la sua e la nostra; quel desiderio che cci rimane di aprire una finestra e venire inondati, avvolti e attirati dalla grande luce naturale, dall'infinità dell'ora e della stagione. Ma in questa notte in cui siamo, la finestra si apre su un'altra notte, il paesaggio è fittizio; vediamo solo una sua proiezione, un suo ricordo, una sua angosciosa, fuggevole e artefatta presenza. E poi si tratta di un paesaggio desolato, antico e silente, dove non nascono alberi, cespugli, fiori, non si innalzano monti, colline, non si distendono prati; solo mari e cieli, onde e nuvole occupano gli spazi: solo acque e arie, gli elementi che di solito abitano i sogni.
E se a volte le onde possiedono una grafia orientale, se sembrano discendere da quelle di Hokusai, ciò entra in perfetta armonia con l'immagine, poiché mai come nelle stampe dell'artista giapponese esse furono astratte, innaturali e simboliche. Nostalgia di paesaggio vuol dire forse impossibilità di paesaggio, distanza dalla natura. Le incisioni di Lacasella colgono, con la poesia di un solitario, questa impotenza, e l'angoscia che ne deriva: restano immobili, sospese, in attesa che finisca il sogno, abbia termine la notte, e si possa di nuovo abitare il paesaggio.
Roberto Tassi 1987
Questo tentativo di descrizione da già più di una traccia, o più di una risposta: ma non serve seguirle, poiché non si sa, dove porterebbero; e la verità è che in quelle incisioni non deve avvenire niente, né esse devono dare rappresentazione di alcunché: sono, nella loro ambiguità, nella loro bellezza, nella loro atmosfera angosciosa e notturna, nella loro fortissima tensione e moralità, tecnica.
Sembrano solo, di questa capacità tecnica, cantare la perfezione; e cantano la solitudine. Lacasella non dipinge, non so se disegna, ma forse no; solo incide; è un incisore puro; e si è tanto avanzato nella padronanza del linguaggio incisorio, che questo gli basta; aderisce perfettamente alla sua immaginazione e al suo mondo; dice tutto quello che il suo impulso poetico vuol dire.
“Viaggio al termine della notte” ha scritto, interpretando queste opere, Vittorio Sgarbi, che stima molto Lacasella, al pari di me; come avviene spesso, anche per altri artisti, tra lui e me, quasi medianicamente o per quelle fatalità che ci fanno percorrere, nella foresta intricata e selvaggia entro cui tutti ci aggiriamo, gli stessi sentieri. Ma sebbene la notte sembri al termine, quando i sogni sono più veloci, numerosi e intensi, pure essa non termina mai. E certo entro di essa Lacasella compie un viaggio, si aggira tra i suoi padiglioni deserti, tra le sue fluttuanti ombre, tra i lampi di luce, entro gli incomprensibili spazi.
Forse Lacasella rappresenta la nostalgia del paesaggio; la sua e la nostra; quel desiderio che cci rimane di aprire una finestra e venire inondati, avvolti e attirati dalla grande luce naturale, dall'infinità dell'ora e della stagione. Ma in questa notte in cui siamo, la finestra si apre su un'altra notte, il paesaggio è fittizio; vediamo solo una sua proiezione, un suo ricordo, una sua angosciosa, fuggevole e artefatta presenza. E poi si tratta di un paesaggio desolato, antico e silente, dove non nascono alberi, cespugli, fiori, non si innalzano monti, colline, non si distendono prati; solo mari e cieli, onde e nuvole occupano gli spazi: solo acque e arie, gli elementi che di solito abitano i sogni.
E se a volte le onde possiedono una grafia orientale, se sembrano discendere da quelle di Hokusai, ciò entra in perfetta armonia con l'immagine, poiché mai come nelle stampe dell'artista giapponese esse furono astratte, innaturali e simboliche. Nostalgia di paesaggio vuol dire forse impossibilità di paesaggio, distanza dalla natura. Le incisioni di Lacasella colgono, con la poesia di un solitario, questa impotenza, e l'angoscia che ne deriva: restano immobili, sospese, in attesa che finisca il sogno, abbia termine la notte, e si possa di nuovo abitare il paesaggio.
Roberto Tassi 1987
Conoscendo e apprezzando in profondo l'opera incisa di Silvio Lacasella, subendo il fascino di quella perizia e di quel mistero, nessuno poteva immaginarsi come sarebbe stata la sua pittura, quando si seppe che aveva cominciato a dipingere. Si poteva paventare la frantumazione di quell'oscuro spazio, di quelle mirabili composizioni e frammenti di natura, paventare l'arrivo pericoloso del cuore.
E invece il passaggio è stato semplice, naturale, necessario; sono rimasti quel mondo, quella visione, quella natura, e il loro imprigionamento; è rimasta l'essenzialità dell'immagine, la solitudine, la distanza.
Il colore non ha prevaricato, tenendo una delicatezza, una combustione, un vuoto o vortice, una astinenza di toni, una ricchezza di velature, e trapassi sottili. Di bruni, d'ocre, di azzurri, di grigi, di neri, con, a tratti, improvvisi baleni di bianchi.
Era naturale, ma è risultato nuovissimo: ora abbiamo una pittura di paesaggio come non si era mai vista, e non sappiamo se si tratta di vero paesaggio, o di nostalgia, impossibilità, sogno, astrazione, o interno (come dicono i titoli) di paesaggio. Crediamo di sapere che si tratta di un romanticismo imprigionato,; forse dell'unica possibilità che ci è rimasta di rivedere la natura vergine e drammatica del romantico, ma allontanata, stretta, sì proprio imprigionata entro i frammenti, i ritagli, le difficoltà di una visione che non può più essere unitaria, totalizzante, armonica, aperta all'infinitezza. Come se vedessimo oramai solamente dal finestrino di un aereo, dal taglio orizzontale di due sbarre, dal vetro di un cannocchiale, da una fessura notturna; e come se solo sovrapponendo, ritagliando, incorniciando, velando, congiungendo frammenti, riuscissimo a raggiungere un tutto, una totalità.
Ma non c'è da perdersi d'animo perché con questa invenzione, anzi con questo contrabbando di Lacasella, riusciamo ancora ad emozionarci per un'ala di nuvola, un picco imbiancato di neve, un'onda agitata, un'apertura di celeste, un turbine di pioggia, un orizzonte lontano strisciato di luce dopo il tramonto, per la sera sul mare, per l'alba e per tutte le situazioni meteorologiche di trapasso, incerte, vaghe, tristi; e riusciamo anche a sentirci angosciati per la vertigine e l'ambiguità di una strutturazione che concede e toglie, illumina e oscura, concentra e inganna.
Roberto Tassi 1990
E invece il passaggio è stato semplice, naturale, necessario; sono rimasti quel mondo, quella visione, quella natura, e il loro imprigionamento; è rimasta l'essenzialità dell'immagine, la solitudine, la distanza.
Il colore non ha prevaricato, tenendo una delicatezza, una combustione, un vuoto o vortice, una astinenza di toni, una ricchezza di velature, e trapassi sottili. Di bruni, d'ocre, di azzurri, di grigi, di neri, con, a tratti, improvvisi baleni di bianchi.
Era naturale, ma è risultato nuovissimo: ora abbiamo una pittura di paesaggio come non si era mai vista, e non sappiamo se si tratta di vero paesaggio, o di nostalgia, impossibilità, sogno, astrazione, o interno (come dicono i titoli) di paesaggio. Crediamo di sapere che si tratta di un romanticismo imprigionato,; forse dell'unica possibilità che ci è rimasta di rivedere la natura vergine e drammatica del romantico, ma allontanata, stretta, sì proprio imprigionata entro i frammenti, i ritagli, le difficoltà di una visione che non può più essere unitaria, totalizzante, armonica, aperta all'infinitezza. Come se vedessimo oramai solamente dal finestrino di un aereo, dal taglio orizzontale di due sbarre, dal vetro di un cannocchiale, da una fessura notturna; e come se solo sovrapponendo, ritagliando, incorniciando, velando, congiungendo frammenti, riuscissimo a raggiungere un tutto, una totalità.
Ma non c'è da perdersi d'animo perché con questa invenzione, anzi con questo contrabbando di Lacasella, riusciamo ancora ad emozionarci per un'ala di nuvola, un picco imbiancato di neve, un'onda agitata, un'apertura di celeste, un turbine di pioggia, un orizzonte lontano strisciato di luce dopo il tramonto, per la sera sul mare, per l'alba e per tutte le situazioni meteorologiche di trapasso, incerte, vaghe, tristi; e riusciamo anche a sentirci angosciati per la vertigine e l'ambiguità di una strutturazione che concede e toglie, illumina e oscura, concentra e inganna.
Roberto Tassi 1990