"LA VITA ACRE DEI SEGNI"
"...E le parole giacciono/ prostrate/ senza più senso/ nell'anima deserta// le parole,/ unico appiglio al mondo/ se qualcuno ascolta,/ inutile vento ai denti/ se scivolano via/ tradite nell'indifferenza". Caro Silvio, lo so bene che se ci metto un'exergue (e spero almeno ti abbia già agganciato di curiosità) la lettera prende subito un sapore di artefatto, d'artificio letterario, di escamotage stilistico. Invece così non dev'essere, no, vorrei proprio che risultasse una lettera semplice e vera, spedita per le vie aeree dell'amicizia e finita in un catalogo, se così tu desideri. Già sento D'Amico che obietta: sì, ma troppo lunga. Sì, una lunga lettera di, non di disimpegno, ma di disincagliamento. Spero tu me la perdonerai.
Mi parli, e parli nel bel testo che ho sotto gli occhi, di silenzio, un silenzio-strappo, ferita creativa, di quasi due anni, e visto riportato così, sulla carta della mail, con la sagomata forma inequivocabile del computo inesorabile, placcato accanto - dal 2007 a quasi tutto il 2008 - senz'ipocrisia retrospettiva o larmes du crocodil, la cosa mi tocca con ancora più effetto, dov'eravamo allora? Mi verrebbe da dire... sì, qualcosa si poteva intuire. Quei rifiuti allentati al poter venire in visita in studio a guardare qualcosa, quello svicolare smaltato di malcelati sorrisi sornioni, quei malumori soltanto accennati, alla cornetta del telefono, e come diluiti in altre nomadi argomentazioni, non evasive ma placebo. Quel venir meno improvviso dell'atelier in casa, quel trovarci spesso concordi, nel bastonare a voce purtroppo le miserie del nostro mondo mostr'omicida...
Tutto questo, perché dal silenzio - dal silenzio espressivo, creativo, forse - vorrei partire, e tu, spero, mi voglia condividere e commiserando capire. Se hai vissuto, e con quale dolore raffermo, il tuo lungo silenzio delle forme negate, forse capirai ancor meglio quello dell'impossibilitato "parler-peinture": catastrofico sempre più, per me. Abisso abituato del nulla, con il fronzolo imperdonabile, poi, della fatuità pubblico-editoriale. Parler-peinture: che non è ovviamente il linguaggio che usiamo talvolta, o ci rimbalziamo anche, tra noi, smagliato ping pong, conciliante linguaggio giornalistico dei resoconti critici, che ci può anche tornar confacente e senza tormenti alcuno: facile, fluidificato. No, è, al contrario, l'idea perduta, che una pittura, così ben sigillata nei suoi misteri e nei suoi sotterrati enigmi - non uso la parola a caso - possa esigere o plorare un'esegesi a stampella, un'illusione vanitosa di esplicazione linguistica, un controcanto parlato (per questo ho posto all'inizio quei versi, di cui poi ti dirò). Vedo che a Fabrizio viene benissimo, invece, e lo invidio grandemente e serenamente, perché questo certame che qui si apre, lo vivo ormai come un'impresa lontana da me, araldica, quasi, e come estranea: l'arte definitoria. Una tensione ammainata, entro il cui ventre è vano oramai rivaleggiare. Lo ammiro incredulo e credo, in verità, oggi sia impossibile far di meglio, dopo tanto parlare di te ('strologando', dirà presto il poeta, non condividendo questo misterioso termine il sordo, ottuso correttore automatico del mio computer. "Qui sulla terra scabra/ gli occhi alle albe/ e ai tramonti/ la mente alla memoria/ e alla speranza// noi qui immoti/ a strologare/ sotto il cielo lucente/ in attesa di un segno/ che traluce/ a volte/ in questo nostro trasumanare/ dei pensieri/ che salgono stupefatti/ all'infinito"). Riprendo: tu che hai avuto tanti nobili ed illustri difensori della tua stabilizzata opera - è pur vero, come da D'Amico raccontato, quand'ancora battagliavi però con le aste crudeli delle burbere procelle d'acquaforte. E dunque superflua mi pare qui la mia presenza, salvo che segno di amicizia e stima, e gioia finalmente di questa tua riconoscenza vicentina.
Soprattutto ora, che m'è stato rubato il ruolo, in catalogo, di dialogante con te, che mi risultava più confacente, a quel silenzio, e già l'abbiamo sperimentato, quel ruolo, altre volte, ma è anche così rilassante e nutritivo star quieti ad origliare, sul computer, senza l'impegno d'articolare la prossima domanda puntuale. Così parto dall'ultima tua affermazione di chiusa, e mi diverto a subito contraddir(mi). Nonostante il roboante epitaffio di Seneca, che parrebbe sbarrarmi il passo e scuotermi in viso la testa: "Non est ars, quae ad effectum casu venit" (oh quanto Seneca avrebbe da combattere ed argomentare oggi, poveraccio!) io parto proprio a controcanto e non per dispetto: dall'incontro casuale, meglio fortuito (perché ci sia almeno infitta come spada la radice del termine fortuna: della sorte) e con smarrimento come rabdomantico, con altri testi, prevalentemente e quasi istituzionalmente solo di poesia, prelevati ad usum, come alla cieca, dalla biblioteca (non necessariamente la mia), proprio per reperire un punto di riferimento-orientamento allo smarrirsi fatico (perché di smarrimento del dire critico, comunque, si tratta) un contributo nutritivo, un conforto che viene da altro pensiero. La stampella rassicurante delle 'sorti'. Tu dici, nel tuo rispondere: "Guarda caso, anche la materia, come l'incisione, occorre tenerla a bada, altrimenti ti prende la mano e ne approfitta. 'Inventa' per conto suo. Adesso mi concedo una citazione, è la prima, l'ha scritto Seneca nelle Epistole Morali. Condivido pienamente. Come sappiamo, una cosa è l'irripetibilità del gesto, un altra l'"effetto". Una trasmette visivamente un particolare stato d'animo, l'altra, per quanto strabiliante e ugualmente irripetibile, trasmette solo il volere del caso". Per me, appunto, in questa mia operazione, c'è saliente il volere del 'gesto', così significativo, liberatorio, cauto e curioso, nella sua tentatività: molte volte l'ho sfangata, o per lo meno me ne illudo io, i destinatari non so quanto vogliano condividere. Il gesto magnifico e tremante (sorrido, ovviamente) di 'estrarre', da una diga trattenuta d'idee e parole, schierate sull'orlo della riva bibliotecaria, la parola fatalmente giusta (non voglio stabilire un legame tra fatico e fatale, ma certo, quand'hai gettato la parola-chiave, il misfatto è ormai tratto). T'ho detto, poesia, che non è che poi io frequenti così familiarmente. Ma appunto, come son convinto che sia molto più facile parlare criticamente d'una pittura prosastica, non dico aneddotica, ma descrivibile, circoscrivibile, son convinto ch'esista una pittura, chiusa in se stessa e sequestrata ai significati, che è inutile, superfluo, canzonatorio perfino perimetrare con il metro geometra ed un poco pedante, ragionativo-sistemante, della prosa esplicativa. Come se altra 'canzone' ci vuole. Ora, una pittura aforismatica e lapillare, come la tua, che procede per ellissi, omissioni e ripensamenti inflitti alla profondità delle superficie, finirei per dire che può riflettersi soltanto, così mi pare, nel linguaggio enigmatico e frammentario, lampeggiante, della poesia. Ovvio, se uno fosse poeta, tutto risolto: molti critici ci si son pure provati, hanno saltato il fosso delle barriere stilistiche, magari piantando qui e là, a caso, la barretta nomade e casuale dell'enjambement smembrante, là ove il discorso critico un poco si flette e smolla. No, io credo che sia più salutare cercare altrove, e chiedere ausilio forestiero, non dico ad una poesia che debba esplicare e commentare, ma che doppi ad eco la voce stessa, rauca, della pittura, che ha raggiunto il privilegio vertiginoso del suo stesso silenzio. Te l'ho detto, che mentre pensavo a come districarmi da questo gomitolo d'inquietudini e stanchezze, m'è venuto in aiuto un amico semiologo, nella Romagna, che aveva sprofondato il telefonino dentro le pagine rare d'un libro sulle immagini, e l'ho avvertito, che non lo cercasse invano. Ho capito invece che l'usava consapevolmente come grasso segnalibro, e allora m'ha regalato una citazione di Virginia Woolf, non poesia dunque, e senza nemmeno bisogno del mio propiziatorio gesto estrattivo, dalla biblioteca, ma come se mi venisse incontro come un viatico generoso su ali surfeggianti, una citazione che ho bevuto con rapimento e che mi sono subito affrettato a trascrivere, con la mia ormai non più grafia riconoscibile, su un taccuinetto estratto alla meglio. C'è voluto non poco sforzo a restaurare quelle frasi dalle circonvoluzioni capricciose, e troverai, sicuramente, ancora qualche lacuna grammaticale nel testo, che rendono anche più enigmatico e misterioso il significato del pensiero della Woolf, ma mi sembra comunque perfetto, per questo nostro discorso, appena imbastito, sul 'silenzio' della pittura. Noi guardiamo sempre la pittura dal nostro punto di vista, di chi vede, ammira, giudica, dall'altra parte comunque della barricata, e allora sinestesicamente ascoltiamo: sensi, parole, racconti, significati. Stanze, canzoni e ballatette. C'è una pagina magnifica, in Eupalinos di Valery, in cui lui ascolta vigile l'urbanistica 'murmurante' della città, e ci son case che parlano, altre che stanno mute o addirittura che cantano, sguaiate o felici. Però non ci domandiamo mai veramente che cosa 'vede', la pittura, non saltiamo mai davvero al di là della superficie-schermo, per capire se ha senso domandarsi che cosa possa dire o comunicare una tela. Non so se te lo sei mai domandato. "Vi sono due edifici sul medesimo marciapiedi, lambiti incessantemente dalla medesima marea: la National Gallery e la National Portrait Gallery. Per entrare nell'uno o nell'altro edificio basta attraversare un cancelletto girevole e, in certi giorni della settimana, separarsi da una moneta di sei pence, tra il flusso rapido e professionale della folla e gli autobus che nuotano coraggiosi in superficie". Mi pare già un buon inizio: che cosa ci spinge a sospingere il cancelletto d'un Museo, a varcare questa laguna della Morte? Non posso non pensare al significato simbolico-bellico delle "Tre Ghinee", pensando a quei sei penny dispensati come con titubanza, solo qualche giorno (e penso all'entrata libera d'oggi, alle National, grazie al ricatto di sir Dennis Mahon: che altrimenti si riprende i Guercino donati, 'regalati' a tutti, ai senza-biglietto). "Non capiterà a nessuno che abbia un senso plastico altamente sviluppato di pensare alla pittura come all'arte del silenzio. Tuttavia questa opinione è probabilmente alle radici della comune avversione degli inglesi per i quadri affissi al muro". Potremmo pensare di contraddirla, pensando appunto a Holbein, Van Dyck, Batoni, a quanto ha fatto l'Inghilterra di Reynolds, Gainsboroug, Hogart e Turner, per ottenere certa pittura ("avversione"?) ma sarebbe una sciocchezza e poi la Woolf parla qui in fondo del common sense. Diamo per scontato, dunque, questo mutismo anglosassone, vendicativo e risentito, nei confronti della pittura, 'che non ci parla' e proviamo a guardare la pittura dall'altro lato. Mi piace questo frammento della Woolf, proprio perché, poeticamente, non si spiega sin in fondo, s'attorciglia misterioso nel percorso, si rivela appunto rapsodico e chiuso, come una lirica. "Eccoli lì, le tele, nel successivo passare dei secoli, che ci abbandonano, indifferenti, nelle difficoltà private, come nelle calamità pubbliche. Non strappiamo loro alcun messaggio, di ciò che vedono attraverso le sale, non sono sicura, forse una gondola a Venezia, centinaia di anni fa. Le nostre passioni, i nostri desideri, l'entusiasmo del momento, i problemi transitori, non ottengono consolazione né soluzione. Sotto lo sguardo solenne scoloriamo, rinsecchiamo, e scompariamo". Che è immagine per me bellissima e forte, come quella dell'indifferenza ai nostri guai, chissà se condividi. L'inutile indifferenza della pittura (poi io, ovviamente, corro subito in un museo, a confortarmi). "E tuttavia non si può negare che se la nostra resurrezione, dovesse verificarsi, sarebbe singolarmente nobile, come un risorgere purgati e purificati, privi della lingua, è vero, ma liberi dall'impertinenza e dalle pretese di quest'organo, troppo attivo e vivace". Liberaci, o signore, dalla nostra parola, dalle nostre parole. "Il silenzio risuona vuoto e solenne, come la cupola di una cattedrale. Che tale sensazione non sia di natura estetica diventa evidente assai presto, perché dopo uno sguardo muto e prolungato, la stessa pittura sulla tela comincia a distillare parole, non parole di scrittura bensì come tante indolenti gocce lente che potrebbero macchiare la pagina di colore, ma non dirci definitivamente di che tipo di parole si tratta". Significativo anche questa chiusa di frammento, questo sgorgare tardivo di sudore pittorico, che non è fatto però di parole traducibili, trascrivibili. Ecco io vorrei soltanto 'macchiare' di quelle parole zitte la mia pagina, offrendo un'ultima possibilità ad un poeta infelice d'incaponirsi nei suoi esoterici versi, che mi son parsi così di contributo. C'è sempre una figura femminile contrastata, in lui, che s'agita o tace, in controluce, che vivifica il second'atto d'ogni poemetto, e che ovviamente non trovo in te, come non trovo figure, se non internate, consunte, larve o filigrane, nella tua pittura, com'invece eran vistose e battagliate le forme, nella tua grafica. Gelide parvenze, appunto: velo masticato dal tormentarsi insoddisfatto ed omicida della spatolata ("un corpo dietro un passo senza peso".
Partiamo da zero, zero quanto mai leopardiano. "Gelide parvenze/ la vita acre dei segni/ conosco". Un'exergue, un attacco che m'avvicina subito a te, soprattutto in quel gioco incrociato tra "conoscere" e "sapere", che non si equivalgono. Qualche cosa che mi pare informare anche la tua pittura, sapientissima ed insieme straziata, nel silenzio percussivo delle non-risposte, pittura che conosce ma non sa. "Non è finito lo spazio./ Io mi corrompo. Non so l'aurora quale il ladro/ del tempo rapido senza scampo./ E' murmure/ il suo sonno a una risposta a sommo/ di una tomba nascosta che ti trasporta/ e, di trasporto in trasporto, è il suono/ dell'esser felice/ gioia non tersa/ calma nel suo fondo. E se nel suo velo/ un corpo dietro un passo senza peso/ vede, triste io ti domando. I cieli/ sono sciupati, emersi dentro un raggio./ Nell'isola che li contiene/ è una rondine felice". Io non saprei certo dire meglio, di te. Forse sbaglio, m'illudo, mi suggestiono stoltamente, ma non certo per il turpe escamotage di non volermi occupare di te, frontalmente, quasi non volessi compromettermi, o non sapessi che dire, altri mandando, in avanscoperta, pilota vigliacco. No, mi sembra perfetto qui, quel parlare di "cieli sciupati", emersi come un S.o.S entro quel lago circoscritto, tombale della lastra pittorica, ove "lo spazio non è finito". Ma procede in quella perenne corruzione verticale della superficie e della materia, in profondità, che altro non mi pare essere che il quotidiano accanimento pittorico, o poetico, che non è cosa poi molto diversa (anche nel non-dipingere in fondo è trattenuta la stessa nevrosi). So che non può esistere volo di rondine, nel tuo dipingere, e non vorrei certo cercare una corrispondenza pedissequa, meccanica, ma in fondo, se l'immagine, baudlerianamente, non fosse troppo poncif, potremmo anche avanzare di credere la pennellata, costretta e carcerata, come un goffo corrispettivo di volo di rondine, nella luce claustrale della tela (non è forse bella quell'immagine del quadro, come "isola che contiene"?). E così, quando, riluttante ad aprire il mio scritto, indolente come un ragazzino ai compiti costretti delle vacanze, ho estratto come per sfida, dalla vecchia non mia biblioteca, un libro corposo, rosso, in mezzo ai familiarissimi Cantos e a Machado e a Salinas, che ben conoscevo (Salinas l'ho usato altrove, per un altro esperimento similare) il rosso libro, incanestrato Lerici, d'un nome a me quasi sconosciuto, Lorenzo Calogero, ed appena mi son tuffato goloso a sfogliare, credo proprio questi stessi versi che hai sotto gli occhi, ebbene io ho riveduto come in lampi spenti, la tua stessa pittura -con quella strana felicità luminosa del colore (avevo scritto dolore, che lapsus... quasi il colore fosse in realtà il dolore della pittura - penso agli occhi malati di Degas) del colore e della perdita: quella gioia come sepolta e trafficata dal bisturi-pennello, che affetta l'aria e sarchia i terreni e che qui, "gioia non tersa, calma", si deposita poco a poco, nel dipingere affaticato della parola, dentro "la voragine viva". Anche Caproni osserva: «.... non lascia dubbi sull´autenticità e nobiltà del suo messaggio, che è quello di una disperazione ormai così alta, e calma, da non conservare più traccia di romantico dolore, o d´esistenziale sgomento o tremore...".
"Perché io ancora non intendo/ e poco so e la lava riaccende/ sulla pietra i colori la luce casta/ selvaggiamente cinge i tramonti"... ancora una volta, qui, ho l'impressione di trovarmi immancabilmente immerso entro una tua veduta interiore, non so se farnetico, e non vorrei nemmeno suggerire, a chi magari leggesse, delle sovrimpressioni scolastiche, rigide, tra testo ed immagine, che io sento aleggiare come in trance. Meglio lasciar correre il pensiero. "Poteva essere un tuo dono/ riceverti ed attenderti in questa tua ora/ o disperato abbandono dove sapevi cedere/ e non incedere, cadere polvere liquida/ che scorreva da anni nel suono/ gamma lucente o iride nel vuoto". Cedere, non incedere, così fa il pennello, cedere della luce e del paesaggio. Anche se, ancor più fedelmente, è bello immaginare che un poeta 'veda' già, dentro una visione pittorica, che verrà molto tempo dopo di lui: è una circolarità quasi medianica, che un po' mi lascia ditate di sconcerto. "Quando dal cittadino murmure/ si sveglia il mare o così deserto/ pianamente accanto caduto è il sole/ ad occidente/ odo altro suono./ L'alta marea del sogno mi sorregge/ o io più non rispondo di me/ o di sé o di chi pose in altro luogo/ una distanza incerta. Una solitudine/ s'accende: era pure calcolata/ sopra una regione languida e morente/ (...) Entro un tempo rapido in un lampo/ erano ugualmente due a due/ mortalmente disegnati/ labbra di marmo o nastri di alabastro,/ ed io non mi ricordo di essere/ nel peso del suo grembo vergine/ perché uditi erano fuori/ i suoni, in altro luogo erano/ davvero i colori". In altro luogo, erano i colori. Che come i versi si susseguono, scoscesi, senza il busto ingessante d' una logica sintattica: colore destrutturato e colto. L'alterità del vedere pittorico, di cui abbiamo sin qui parlato. Quel vedere i quadri dalla parte del vedere: labbra di marmo e nastri d'alabastro. Trasparenze, che sono rinnegamenti, in verità, maschere cieche del colore che copre ma non medica l'assenza. "Caduto il sonno/ il suono cieco riemerge/ ed è lugubre una magia/ da cui mi tenni nascosto. Il volto/ è un continuo disordine/ un cadere cupo nel folto. Più non so rispondere/ se non per discendere/ o è troppo...". Il volto: autoritratto metaforico del dipingere, come continuo crollare (e riposizionarsi della maschera cromatica) del costituzionale disordine creativo. "Un cadere cupo nel folto": lo ripeto, quel verso stregato, perché è in fondo questo la pittura, la poca pittura vera dei nostri ultimi anni, penso a Romiti, a Ruggeri, a te, appunto. "Perpendicolarmente a vuoto/ tracce erano, limiti, e da questa parte/ il vento/ in prati ove non si odono/ cose di cui non mi ricordo;/ e sai quanto noioso un ramo/ era e mi guida e dall'aria/ mi divide che non amo. Più non riconosco/ una larvata presenza di essere,/ un'usanza di crescere e non basta:/ se mi soffermo un poco un soffio/ era già troppo e il resto. Sinuoso/ e sveglio un vano respiro d'albero/ corrompe me pure in una dolcezza varia./ Una levigatezza che apparve nello spazio/ soffre il vuoto, il disordine, il discendere/ dell'età morente. Un alito ricrebbe nella guazza. // I sottintesi richiamo un respiro d'aria/ una solitudine già odono". "...e le abitate tue solitudine". Proviamo con un altro chiavistello. "Per quanto i sogni siano proclivi,/ non è l'odor del fondo e freddo/ raccolto ciottolo che ti mantenne,/ non è una tregua simile all'addio/ la sete calda delle tue promesse,/ nella febbre del tempo tremulo/ che t'infastidisce./ Ad onde il suono gelido marcisce/ nella voragine viva che ti vince./ Un freddo torrido già sale in gola./ Uno scroscio è uno screzio/ che addolcisce il fuoco/ nel murmure d'una tua parola./ Non so in qual guizzo sia il passo distante/ già fumo e sonno che ti tradisce". Dunque non parola organizzata, ma "murmure", termine che torna così insistente, in Calogero (memoria pascoliana? "Un murmure, un rombo.../ Son solo: ho la testa confusa di tetri/ pensieri. Mi desta/ quel murmure ai vetri. Che brontoli, o bombo?/ Che nuove mi porti? E cadono l'ore giù giù, con un lento/ gocciare. Nel cuore/ lontane risento parole di morti.../ Che brontoli, o bombo?/ Che avviene nel mondo?/ Silenzio infinito./Ma insiste profondo,/solingo smarrito/ quel lugubre rombo". Certo non D'Annunzio, che pure amava). Ed ecco così materializzarsi ai vetri del pensiero l'esile 'murmure', fantasmatico quasi, dell'albero stento, che vedo vien sempre più occupando anche il tuo orizzonte, orizzonte di sfondi pittorici classici, alberati, ponentini (condivido il riferimento a Cima, a Giambellino, direi pure a Bartolomeo Montagna e Diana, un po' ghiacciati nella loro bellezza d'alba smaltata) ora come zoomati d'impeto grandioso (pur nella miniuaturità) da una miopia violenta e caparbia, come portati in repentino primo piano, per svicolare, e scampare in extremis, l'asfissia.
"Erano gli alberi del mattino/ più stridenti, più odorosi della scrittura./ Io li guardo liquefatto/ perché tace la terra o è pura./ Poi si volge la sagoma/ dell'antico declino torbido della vita/ nella luna. Ruvida non ritorna/ indietro più una ruga. E' giunta/ all'apparato che la sfiora. Con lugubri/ magie una luce è smussa/ smussa quanto la siepe è dura". Cancellando l'ippica del guardare leopardesco, che tornerà presto, nell'altro poeta: non so e mi domando, se 'smussa' sia aggettivo che ti torni. "Domande si sono mosse senza nome/ domani e l'albero alla riva, discosto/ composto ad amarsi. Queste righe/ queste seriche strisce sono sbocciate da larve". Domande (di serica scrittura strappata) e subito d'innanzi, repentino, l'albero 'composto' ad amarsi, sostanziato di larve e di "detriti" luminosi . "Si elidono le parole,/ poi chiedono di essere sole,/ poi la raccontano, amaramente/ ad un ciottolo". E qui converrà anticipare due righe di biografia: isolato, inviso alla famiglia, per suo stesso volere, transitato d'asilo medico in asilo, talvolta senza grandi vere ragioni, lui medico e patofobo - un giorno convinto d'esser colpito da tubercolosi, l'altro abitato da cancro, persino dei suoi "terribili fatti emorroidali" racconta drammaturgicamente ai pochi amici - Lorenzo Calogero, nella sua aspra, invitta Calabria, impossibilitato d'amare e ricevere amore, ma sempre innamorato di tutto e soprattutto delle povere riluttanti donne del borgo (come la per lui mitica infermiera Concettina, così poco curativa, che tutto si riceve, in dedica, sua unica dote possibile, ma nulla mai gli concederà). "Son vissuto nella mia professione come se scrivessi versi".
Tenta due volte il suicidio, o più, probabilmente: ma è come, lo vedremo, il ripetersi ogni volta d'una rima incagliata. E poi torna cocciutamente all'avello della sua poesia, unica dannazione-conforto. Rifiutando il cibo, solo nutrendosi di caffè nero, di libri, di farmaci. Ma il suo nulla, il suo esser davvero e geniale "poveruomo, forse nessuno", è ricco, comunque, 'smaltato di smalti' , definizione elementare ed in quest'occasione, per entrambi, mi pare illuminante. Lo smalto nero del sogno impossibile di maritare un'arte: "E sembra un sogno, ma non ho nessuno./ O anima, o madre dei poeti/ e al tuo benigno regno, io poveruomo,/ forse nessuno. E languisco nelle tenebre/ che mi ha lasciato il tuo smaltato/ smalto, io due volte, pronto,/ sul punto di uccidermi e anche questo/ mi assale in dubbio. I detriti potranno fare/ povere cose miracolose e questo mi sale/ al labbro, ove io avevo un punto povero/ un punto povero di poeta...". Non si definisce forse anche 'punto' ("punto di giallo") il minimo momento nevralgico del cangiare delle cromie? "Compreso il sonno, il sogno/ su la medesima aridità/ sopra un opaco legno, mutato/ lo smalto, s'inclina e legge./ Scintillante è una vena, nuda e svagata lena./ Una luna non più s'intenerisce/ e lenta era. A riprenderti/ agevole era prima; sempre/ sopra una fievole china". Non posso non notare come dalle tue opere di pittura, le chine dei tuoi paesaggi negati, l'amata luna, che tu stesso definivi friederichiana, si sia ritirata ed infrattata, nelle spire dei mille detriti di luminosità gessata, imbiaccata, impaniata. La luna, sommessamenre semplice. "Su la sommità era smossa/ la luna sommessamenre semplice".
Due righe ancora sul poeta, ch'è stato 'salvato' dall' "attenzione" necessariamente assediata, distratta da mille altri lavori, notturna, di Leonardo Sinisgalli, e dalla curatela di Giuseppe Tedeschi, che pubblica il primo volume (se ne annuncia un secondo, che scommetterei non avrà visto mai la luce, in quella corposa e catafratta collana Lerici dei Poeti d'Europa, mai trovata una traccia nelle librerie bibliofile. No, adesso scopro da internet, incredibile, che non solo il secondo volume è uscito, e subito dopo Lerici è fallito, e ce n'era un terzo, in annuncio, curato da Amelia Rosselli, ma che negli anni, sotterraneamente, Calogero è diventato uno scrittore, segretamente, di culto, si susseguono convegni e studi, sentiti i commenti tardivi di Luzi e Caproni, più cauto l'elogio di Montale, in uscita del volume, sul Corriere: ancora perplesso. E pare che sia anche favorevolmente citato in alcune antologie). (Mi scuso, anzi, se qualche errore m'è sfuggito nella trascrizione al computer. Il volume ormai m'è lontano, irreperibile nelle biblioteche). Tedeschi, che scrive: "Per la poesia Calogero ha consumato tutto, il suo fisico, il suo cuore, il suo intelletto, fino alla menomazione e alla follia". E Sinisgalli, con quasi brutale sincerità (ma l'edizione, come sempre, è postuma): "Ha avuto tanti guai, vive in un paese sperduto della Calabria, solo e abbandonato, nessuno lo conosce, io stesso l'ho scoperto per caso, vedi che può capitare in questo paese: se non si è nel giro, non si esiste... Gli ho fatto vincere un premio, gli ho scritto prefazioni. Non se ne è accorto nessuno". Lascia la Calabria (un paese dal nome stregato, quasi da fiaba perfida: Melicuccà) sesto figlio d'una famiglia di possidenti-farmacisti, per farsi medico riluttante a Campiglia d'Orcia, nel pieno del senese (forse conosce Tobino, a Lucca) dove addirittura lo dimettono, dopo due mesi di prova inetta. Ma tanto lui non avrebbe retto alla lontananza, pur d'una terra che dice di odiare (solo la madre ama e idealizza). Pubblica a proprie spese, dall'editore Maia (e che bei titoli: "Poco suono" e "Avaro nel tuo pensiero") ponderosi tomi gonfi di miriadi di versi, 10-15 mila diagnostica Sinisgalli, che a ripetizione, e lo confida anche a lui, e lo mette per iscritto, nelle sue vive prefazioni, definisce tranquillamente "insensati" (altri parleranno di un miscuglio di Lautréamont e Artaud, per via della sofferenza). E "groviglio insensato", gli fa eco Tedeschi, che teme di rimanervi impaniato) "E' un groviglio qualche volta insensato come un arbusto che geme al vento o il lampo incerto che riusciamo a ritrovare nel brulichio della memoria. Una poesia dentro cui l'autore sembra sepolto. Non resta una storia, una figura, un oggetto, ma solo il fluire di una vena, l'incanto di una voce" "Ingolfato sempre più nei grandi miti della poesia e della filosofia pessimistica. Ma ormai che l'abbiamo come 'svelato' (nel gergo, anche, del restauro) possiam ben intuire che cosa volevano significare, parlando d'insensato: poemetti tramati quasi in trance, lontano dall'uncinetto confortante dei significati certi, la sintassi slacciata e trafelata, anzi, sine sintassi. Prima, Sinisgalli cerca di convincere almeno Tedeschi: "Versi pubblicati in tre libri fittissimi, a pagamento, bisognerebbe fargliene pubblicare uno, non può rimanere abbandonato, gli si deve qualche soddisfazione, almeno per questa furia mostruosa che ha nel costruire versi e nel dedicarsi alla poesia, sua e degli altri..." E sul Paese sera del '62, quando il caso giornalistico si è già sgonfiato. "Se la critica abdica di fronte ad un libro così ricco, vuol dire che ci sono poche speranze, perché la poesia possa ancora sopravvivere...". Così Sinisgalli rimarrà sempre polemico, con i suoi colleghi paludati, che si son comunque rivelati insensibilmente refrattari e freddi, agli invii e ai suoi solleciti, al punto di progettare contro di loro una poesia-invettiva, tenera e feroce, ora in "L'età della luna", titolo abbastanza calogeriano. L. C. , nome e cognome, citato testualmente nei suoi versi, come un giorno in pretura della Poesia. "Quale vergogna per voi/amici vittoriosi,/ splendenti,/ quale scherno alla vostra boria/ la sfortuna, la miseria/ d´un uomo inetto, innocente! Lorenzo Calogero da Melicuccà/ è venuto a chiedervi pietà/ in nome della poesia./ Come un cane infetto/ ha raspato alle vostre porte/ nessuno gli ha aperto". C'è una bellissima e terribile fotografia 'turistica', forse a Venezia, chissà chi gliel'avrà scattata, non certo un amico, più probabilmente un fotografo ufficiale-ambulante, forse davanti al Duomo di Milano, con la gran cartella gonfia di pegamoide ed inascoltati (stavamo per dire insensati) manoscritti, con la testa sbilenca dell'uomo già vinto, frenato nel passo da una selva di piccioni, unici ammiratori del suo mais generoso. Roberto Roversi intravvede una somiglianza con La Pira, "occhiali tondi ed antichi, come dice Tedeschi". La prima volta Sinisgalli non è in studio, Calogero non lo pre-viene e va in scacco la visita, con grandi ambasce. Poi il prim'incontro, che sarà intensissimo e non s'interrompe, per un giorno e una notte, intera. Poi lo 'passa' al meno oppresso Tedeschi: "Passai tutto il giorno con questo Calogero. Ore anormali, al cospetto di un uomo che distrugge tutta la vita organizzata di un individuo, tutta la sua carica di autoconservazione e voglia di imposizione nella vita. Una figura pallida e disordinata, suggestionante e dispettosa, apparentemente senza storia, o espressiva solo di storia casuale, inconsapevole, a cui tutto capita per ineluttabilità. Figure apparentemente inutili che pure riescono a condizionare, illuminare o deprimere tutto ciò che le tocca. Lo ricordo benissimo morfologicamente: piccolo, magro, storto, tra Leopardi e Tristan Corbière. Perché il poeta rischia in ogni pagina di sembrare insensato, astruso, assurdo, rischia di non dire niente. L'operazione temeraria che egli conduce ha proprio l'indeterminatezza di certe analisi portate sulle qualità sfuggenti, di certe indagini al limite della catastrofe". Quando, con gentilezza (ha già ricevuto il rifiuto secco dell'Einaudi, un giorno che vi si è recato per trovarvi l'editore, questi non è in casa editrice o non si fa trovare, hanno pure smarrito il manoscritto) Vittorio Sereni, fresco redattore mondadoriano, gli prospetta un "no possibilista", dopo una sentita, dolorosa lettera di riinvio del manoscritto e poi, ancora, congiura, per una fatale coincidenza di esubero di materiali, Vigorelli rimanda d'un numero l'attesa pubblicazione d'un mannello di poesie, su l'Europa Letteraria ingolfata, il poeta non vedrà mai le sue poesie pubblicate, venendo a morire poco dopo) Calogero, che appunto è già vicino al morire - si è sempre pensato ad un suicidio, magari di sonniferi (la prima volta era stato il fucile al cuore, la seconda uno svenamento in stile Seneca...) Calogero risponde: "Ho capito ormai e da molto che mi trovo in un mondo alquanto misterioso. Prima speravo che sarebbe finito e che sarei rientrato in una certa normalità di vita. Mi accorgo adesso, o meglio, faccio la triste esperienza che quel tale mondo che avrei desiderato come una specie di normalità al mio genere di vita, a quella tal vita che mi sono costretto a vivere, non verrà mai più. E tanto già se tu mi degni della tua amicizia". E' commovente anche l'epistola di gaddesco tremore (ma pare molto anche quella di Van Gogh, che rifiuta alla soglia della morte l'onere d'essere riconosciuto, quale genio, dal giovane critico intuitivo e intraprendente, che lo vuole visitare e lui lo scoraggia: allontana da sé il calice della celebrità). Anche Calogero ha brigato tanto, ma ora è come titubante e la sua è una lettera di lealtà, a Falqui, che tanto ha brigato per fargli ottenere il premio Villa di San Giovanni. E' una lettera di onestà profonda e di abissale ingenuità, lui stesso non sarà come reagirà, a quel fiammifero effimero di celebrità. "Non le nascondo tuttavia che aver partecipato al concorso mi pone in uno stato di disagio per quel tanto almeno di possibile notorietà che potrebbe derivare al mio nome come poeta. Ella non sa o sa ben poco della mia vita e può sembrarle ben strano un tale senso di disagio, all'atto in cui avevo deciso di partecipare mi sembrava che avrei potuto sopportare un tale rischio con molta disinvoltura, ma potrebbe darsi che non sia così, non le dirò certamente di decidere Lei della decisione da me presa, ma a Lei, come amico che mi ha dato un consiglio, non potevo non dirLe i miei sentimenti, stabilirà un po' Lei, come e quanto essermi effettivamente utile". Tutta la sua esistenza, lui ha 'provato', adesso alle soglie di raccogliere qualche acerbo frutto ha paura. Ha provato, da sempre, con Bargellini, di cui da giovane ha scoperto "Il Frontespizio", ha bussato alla scrivania di Betocchi, mandando assaggi per le edizioni Vallecchi, forse lo ha perfin 'scavalcato', scrivendo direttamente all'editore fiorentino stesso, ma nulla. Ha una lunga prassi di lettere d'auto-presentazioni, sconfitte. La prima dice: "Illustre Sig. Ing Leonardo Sinisgalli" ed è firmata da "Lorenzo Calog.", proprio così, abbreviando il proprio narcisismo, buttando via il suo cognome, frenandoli a metà. "Come vedrà dalla mia scrittura e dal mio nome che figura già sulla carta intestata sono a Lei completamente sconosciuto, e sebbene non più giovane - sono della classe del 1910 - né per questo o per altro la prego di trascurarmi per ciò di cui La richiederò nella presente". Elemosina una recensione, dunque, ma non se ne vergogna: gli basterebbe esserci, citato nella penna di qualcuno che stima: "anche se dovesse dirne tutto il male che si può immaginare. So che anche in tal modo ci guadagnerei. Si dovrebbe vedere sempre se Ella ritiene opportuno far guadagnare in tal modo ad uno sconosciuto, che pure fra gli amori più vivi della sua vita ebbe quello della poesia". E a Vallecchi, da 'uomo di commercio': "Sento la necessità di sbarazzarmi al più presto, obbligando anche la mia famiglia a qualche sacrificio dei miei libri di poesia, poiché prevedo una prossima fine. Scusi se le dico tanto. Non è mia volontà di affliggere nessuno, per cose per cui non mi si può dare alcun aiuto". (No, non è un ricatto meschino, un gioco à la Bevilacqua, lui è davvero già come morto). Lo sa bene Sinisgalli "L'autore di questo libro ha pagato caro la sua follia: venti anni di vita oscura, senza amici, senza complici. E ci si rende conto, ammirando l'estensione del suo dominio, che da tanti anni egli non si poteva distrarre neppure un momento. Un fenomeno raro nella storia delle nostre lettere, una dedizione disperata e mostruosa. Si può capire tanto ardore avanzando delle ipotesi, fabbricando noi un retroscena o un sottosuolo per giustificare una carica di energia così insolita. Ma al poeta è bastata la sua natura, il suo sentirsi vivo soltanto per esprimersi". E ha intuito anche la sua matrice visionaria, pittorica. "Ha allineato degli eventi in un flusso inesauribile di parole, la vita acre dei segni per cui l'arabesco, che è senza dubbio l'acquisto più glorioso delle pagine più aperte, non è mai nomenclatura o contorno, ma diventa esso stesso, più che strumento, sostanza spirituale. Siamo, è chiaro, di fronte ad una poesia colta, che, però, scarta il lusso intellettuale, l'enciclopedia, la sublime futilità, si preclude la scoperta fortuita. Quando dico arabesco, voglio sottintendere un'algebra, un'ottica, una fisiologia, più che una calligrafia. Pensate all'iter Cézanne-Matisse-Klee, al Klee di quella memorabile epigrafe: "Sono inafferrabile. Sono vicino al cuore della creazione più di quanto è possibile e tuttavia non quanto vorrei". Sinisgalli capisce che non è possibile, di lui, offrire un'antologia, ripulita e perbenista, vendemmiandolo con severità "al punto da isolare nella vigna i grappoli incorruttibili. Mi sono accorto subito che non riusciva facile resecare le cellule di un tessuto sempre in crescita. Avrei messo insieme un museo, un atlante, avrei raccolto dei fossili e dei cristalli e sacrificato la virtù più segreta dell'opera, la sua linfa, la sua vena. Senza questa tensione le parole non sono che cadaveri. Egli descrive un sogno così minutamente, lo districa come fosse un materiale misurabile, la sostanza di un'altra vita, più resistente della morte-. Un'opera così serrata non può essere il frutto di illuminazioni improvvise, non si giustifica come una scommessa o un miracolo".
E' quanto succede anche a me, che non riesco a staccarmi, a recidere il cordone ombelicale dei suoi versi intricati, tu dirai, ma che c'entra con la mia pittura? Parla di me... Anche il poeta del "Furor Mathematicus" confessa quest'incantagione: "Tutto il mio tempo disponibile, le ore notturne, io le ho dedicate alla lettura di questi versi, tra la fine di dicembre e fine di gennaio, non mi rammarico del tempo perduto, anzi sono felice di testimoniare per primo di aver percorso e scoperto per primo le meraviglie di questo nuovo continente, che viene ad allargare il dominio della poesia". E siccome nessun amico-collega sembra dargli retta, li chiama in causa, uno a uno, tentando di "restituire la fiducia nei poeti": da Cecchi ad Anceschi, da Bo a Pampaloni da De Robertis a Contini a Ferrata, la lista marziale coivolta, è molto più fitta. Nessuno praticamente abboccherà. Tedeschi protesta invano contro questo mondo di mestieranti della critica, di "arrancante storicismo utilitaristico e consumistico. Può dirsi storico quello storico che storicizza soltanto dati e nomi di parte vincente e pagante? Può dirsi antologista quell'antologista che sceglie autori e testi soltanto su indicazioni di clan e di logge? Tutto ciò è successo e continua a succedere nei confronti di Lorenzo Calogero, poeta senza potere e senza violenza, senza clan e senza logge, senza commerci e senza editori, poeta senza ricatti". Oggi vedo che se ne parla, a credere per lo meno a internet, ma è anche vero che dopo un momento di euforia giornalistica, all'uscire del libro di Lerici, "il caso Calogero", tutto è poi tornato nel silenzio, come riferisce anche Roversi. Lette sulla rivista L'Europa letteraria, dopo le pagine di Calvino, sul Quaderno Americano, quelle poesie gli paiono "esemplarmente strazianti, staziate, miracolosamente intatte, pur dentro al terremoto dei sentimenti, luminose, come veli bianchissimi fluttuanti sul fuoco dell'inferno, prima di avvampare". Poi esce il libro, "un libro di attenzione alta, che interruppe nell'88 l'ancor gelido silenzio critico ufficiale, su questo poeta disperato e tempestato, che ricercava come accecato dall'affanno, a tentoni, allungando le mani, il contatto con altri che fossero almeno disposti ad ascoltare con attenzione la voce e ancora la voce, la forza come una spada insanguinata della sua voce. Per dare la giusta, non più tempestiva ma almeno e finalmente critica gratificazione ad un poeta che non deve restare più sommerso dalle acque, come una statua abbattuta e dimenticata. Deve essere riportato alla luce, urlante grondante solitario. E vivo". Una sola nota. Nella sua biblioteca sono stati trovati (scelgo a casa, ma con un disegno per me preciso) libri di Kiekegaard, Einstein, Schopenhauer, Hoelderlin, Novalis, Nietzsche, Rilke, Hoffamhastahl, Baudelaire, Mallarmé, Valery, Jaspers, Heidegger, Eliot, Campana, Saba, Tobino, Alfonso Gatto, De Libero, Zanzotto.
A Heidegger, e all'esistenzialismo, e quanto mai post-leopardiano fa pensare l'altro poeta, che mi è sembrato impressionantemente parlare di te, e non vorrei qui continuare a trovare ogni volta dei correlativi visivi, dei paralleli quasi automatici, vorrei che tutto fosse subito chiaro, a chi legge e magari guarda contemporaneamente i tuoi paesaggi interiori. E credo che sia davvero superfluo pensare di commentarli, quando già questi versi si pongono come didascalie esaurienti: nella scelta mi pare stia il mio discorso, non nell'arrabattarsi d'un blaterare critico.
Un poeta appartato, tardivamente improvvisato, che veniva dalla storia, il celeberrimo (manualisticamente) Fabietti del duo Camera-Fabietti, artefice efficiente del manuale su cui molti hanno studiato la Storia, sinché la nostra delirante destra non ha trovato da obiettare ch'era un testo sovversivo, insurrezionale! Ma lasciamo la Storia, e Fabietti alla sua poesia, nel romitaggio ultimo di Cetona (piccola plaquette trovata a caso nella stessa casa provvidenziale di Angela Bianchini, antica amica di Fabietti). A me, inoltre, le poesia paiono molto belle, nella loro "sommessa semplicità filosofica". Forse, dopo l'abissale Calogero, il povero, ordinato, borghese Fabietti, darà come l'impressione d'una caduta di tono, un ammainarsi improvviso di dramma e visionarietà. Ma credo che sarebbe un'impressione stolta. La poesia circola comunque, come nel sangue rappreso dei tuoi infornati tableautins. Finis historiae, che potrebbe essere un bel titolo, per questa tua monografica (spero si parta comunque da qualche tua precedente incisione, come fa, di te, per me, pure Fabietti). "Quando deserti lunari/ avvolgono la Terra/ nel cellofan del Silenzio// impassibile/ l'Universo di cristallo/ contemplerà l'abisso/ senza sapere// e gli ultimi umani/ capiranno tardi/ d'aver vissuto/ il Regno dell'Indifferenza/ la catena ferrigna/ della loro storia di sudore/ e di sangue/ sottratta ad ogni memoria/ per sempre". La pittura, Alzheimer smemorato e cocciuto delle nostre cose: perché ostinarsi a rifare le cose, se le cose già ci parlano, quotidianamente e bastano trionfalmente, chiusamente, a se stesse? E' il mistero della pittura, che da sempre m'inquieta, come tu forse sai, ritorno talvolta a Lascaux. Mi è più facile capire un poeta che si ostina su una parola-sesamo, più d'un pittore, che duplica le cose. Come osserva anche il prefatore del libro di Fabietti, Fulvio Papi, filosofo allevato alla scuola di Paci. "Una sapienza compositiva dei significati che non si è mai interrogata sulla possibilità che poesia sia solo un lavoro sulle mille parentele possibili delle parole, al di là della destinazione del senso: una forma e una poetica che sono passate lasciando impronte sempre più flebili. Ma se si ritrova, intatto, l'orizzonte del significato, viene quasi spontanea la domanda, inevitabilmente un poco aggressiva, del perché di una poesia, quali siano le evocazioni più forti che dominano il profondo e tentano di volare verso la luce del senso". Forse, davvero, è un modo protettivo e filosofico di non guardare giù, senza reti, dalla finestra sgomenta ed improtetta del Nulla, ancora una volta se vuoi la siepe misurante di Leopardi (e qui penso ancora al combattimento judo delle tue asta d'incisione, le dighe contrastate nei tuoi tanti tsunami d'acquaforte acida, repentinamente abbandonati). Fessura interstiziale del Nulla, infinito. "Le cose/ che non si possono dire/ aleggiano malcerte/ interstiziali/ come il nostro morire/ o il nostro voler essere/ e non riuscire/ e questa voglia/ di afferrare il senso/ della vita/ nella serie infinita/ di piccole cose/ che non hanno parole/ e rimangono sole. // Come le stelle/ nel cielo notturno/ lasciano spazi immensi/ interstellari/ vuoti allo sguardo / così' i fantasmi dei giorni/ aprono voragini insensate/ senza contorni/ dove si sperde il senso delle cose:/ andate ritorni/ come il moto perpetuo/ di un ordigno privo di senso/ e maligno". Piccole cose che non hanno parole. "Come rifusi/ tra la terra e il cielo/ andiamo alla ventura/ sospinti da un destino/ senza nome// e le nostre parole/ tessono una tela faticosa/ per impedirci/ di vedere il nulla". "Sciame pulverulento/ delle stelle/ dilaga/ nella volta notturna/ e lo sgomento/ invade ogni fibra/ del nostro essere qui/ che nel lampo abbagliante/ vede la dismisura inconscia/ che governa il Tutto". Di che stelle è fatta la materia dei dipinti? Quello che resta. "Siamo soltanto le parole scarne/ affaticate e stente/ che l'anima distilla/ fatta avara/ dalla ruvidità dei giorni/ indifferenti. // Siamo i silenzi fondi/ della notte/ dove vibrano accordi/ balenano volti e gesti/ nei lampi brevi/ della memoria". Pittura, come recipiente di rovine, di detriti, di frammenti scuciti (nel cellofan del silenzio). "Nel tempo informe/ si muovono fantasmi/ volti movenze/ addii/ brani del nostro vivere/ fermi nel vuoto/ immobile/ e gesti amati/ traspaiono/ che hanno segnato/ la morbida cera dei giorni". "Nell'onda lunga dell'eternità/ che travaglia/ ogni fibra dell'essere/ ab aeterno,/ vibrano/ frammenti infinitesimi/ del mondo:/ suoni colori/ eventi/ odio e speranze/ in un caleidoscopio rutilante/ nello scenario arcano/ che sovrasta l'anima/ meschina". Il retino della Pittura e la sua cera, solenne evocazione dell'oleato colore pastello. "Un vento sciroccoso/ lutulento/ impaluda il paesaggio/ smemorato/ del bagliore estivo". "E' scivolata via/ la vita/ tra le dita/ restano soltanto/ gli sterpi disseccati/ e le spine pungenti/ e pensieri/ come schegge di vetro/ taglienti".
E come senti che il tempo, allora, diventa il vero spazio della Pittura. "Il tempo/ questa sostanza/ di cose sperate/ nella fantasmagoria/ del ricordo/ o dell'attesa/ il tempo/ una tela sottile di ragno/ dove luccicano iridescenze labili/ dove ricade la polvere/ grigia/ dei ricordi sbiaditi.// Noi siamo il tempo/ nel battito/ delle nostre vene/ nel nostro passo/ che si fa malcerto/ mentre scabre/ emergono immagini/ nel brivido del disincanto". Ancora una volta io mi trovo in una tua tela. Immortalità. "Hanno un senso/ forse/ anche le stelle/ che sussurrano nei silenzi notturni/ quando scivolano/ colorati fantasmi/ di sogni e attese/ e affanni/ tessuto ambiguo/ della vita nostra.// Sì, come andate/ e ritorni/ della memoria/ per una immagine/ un gesto usato/ per un sì un no,/ per ribadire verità/ inesauribili./ Forse questa/ la nostra immortalità".
"...E le parole giacciono/ prostrate/ senza più senso/ nell'anima deserta// le parole,/ unico appiglio al mondo/ se qualcuno ascolta,/ inutile vento ai denti/ se scivolano via/ tradite nell'indifferenza". Caro Silvio, lo so bene che se ci metto un'exergue (e spero almeno ti abbia già agganciato di curiosità) la lettera prende subito un sapore di artefatto, d'artificio letterario, di escamotage stilistico. Invece così non dev'essere, no, vorrei proprio che risultasse una lettera semplice e vera, spedita per le vie aeree dell'amicizia e finita in un catalogo, se così tu desideri. Già sento D'Amico che obietta: sì, ma troppo lunga. Sì, una lunga lettera di, non di disimpegno, ma di disincagliamento. Spero tu me la perdonerai.
Mi parli, e parli nel bel testo che ho sotto gli occhi, di silenzio, un silenzio-strappo, ferita creativa, di quasi due anni, e visto riportato così, sulla carta della mail, con la sagomata forma inequivocabile del computo inesorabile, placcato accanto - dal 2007 a quasi tutto il 2008 - senz'ipocrisia retrospettiva o larmes du crocodil, la cosa mi tocca con ancora più effetto, dov'eravamo allora? Mi verrebbe da dire... sì, qualcosa si poteva intuire. Quei rifiuti allentati al poter venire in visita in studio a guardare qualcosa, quello svicolare smaltato di malcelati sorrisi sornioni, quei malumori soltanto accennati, alla cornetta del telefono, e come diluiti in altre nomadi argomentazioni, non evasive ma placebo. Quel venir meno improvviso dell'atelier in casa, quel trovarci spesso concordi, nel bastonare a voce purtroppo le miserie del nostro mondo mostr'omicida...
Tutto questo, perché dal silenzio - dal silenzio espressivo, creativo, forse - vorrei partire, e tu, spero, mi voglia condividere e commiserando capire. Se hai vissuto, e con quale dolore raffermo, il tuo lungo silenzio delle forme negate, forse capirai ancor meglio quello dell'impossibilitato "parler-peinture": catastrofico sempre più, per me. Abisso abituato del nulla, con il fronzolo imperdonabile, poi, della fatuità pubblico-editoriale. Parler-peinture: che non è ovviamente il linguaggio che usiamo talvolta, o ci rimbalziamo anche, tra noi, smagliato ping pong, conciliante linguaggio giornalistico dei resoconti critici, che ci può anche tornar confacente e senza tormenti alcuno: facile, fluidificato. No, è, al contrario, l'idea perduta, che una pittura, così ben sigillata nei suoi misteri e nei suoi sotterrati enigmi - non uso la parola a caso - possa esigere o plorare un'esegesi a stampella, un'illusione vanitosa di esplicazione linguistica, un controcanto parlato (per questo ho posto all'inizio quei versi, di cui poi ti dirò). Vedo che a Fabrizio viene benissimo, invece, e lo invidio grandemente e serenamente, perché questo certame che qui si apre, lo vivo ormai come un'impresa lontana da me, araldica, quasi, e come estranea: l'arte definitoria. Una tensione ammainata, entro il cui ventre è vano oramai rivaleggiare. Lo ammiro incredulo e credo, in verità, oggi sia impossibile far di meglio, dopo tanto parlare di te ('strologando', dirà presto il poeta, non condividendo questo misterioso termine il sordo, ottuso correttore automatico del mio computer. "Qui sulla terra scabra/ gli occhi alle albe/ e ai tramonti/ la mente alla memoria/ e alla speranza// noi qui immoti/ a strologare/ sotto il cielo lucente/ in attesa di un segno/ che traluce/ a volte/ in questo nostro trasumanare/ dei pensieri/ che salgono stupefatti/ all'infinito"). Riprendo: tu che hai avuto tanti nobili ed illustri difensori della tua stabilizzata opera - è pur vero, come da D'Amico raccontato, quand'ancora battagliavi però con le aste crudeli delle burbere procelle d'acquaforte. E dunque superflua mi pare qui la mia presenza, salvo che segno di amicizia e stima, e gioia finalmente di questa tua riconoscenza vicentina.
Soprattutto ora, che m'è stato rubato il ruolo, in catalogo, di dialogante con te, che mi risultava più confacente, a quel silenzio, e già l'abbiamo sperimentato, quel ruolo, altre volte, ma è anche così rilassante e nutritivo star quieti ad origliare, sul computer, senza l'impegno d'articolare la prossima domanda puntuale. Così parto dall'ultima tua affermazione di chiusa, e mi diverto a subito contraddir(mi). Nonostante il roboante epitaffio di Seneca, che parrebbe sbarrarmi il passo e scuotermi in viso la testa: "Non est ars, quae ad effectum casu venit" (oh quanto Seneca avrebbe da combattere ed argomentare oggi, poveraccio!) io parto proprio a controcanto e non per dispetto: dall'incontro casuale, meglio fortuito (perché ci sia almeno infitta come spada la radice del termine fortuna: della sorte) e con smarrimento come rabdomantico, con altri testi, prevalentemente e quasi istituzionalmente solo di poesia, prelevati ad usum, come alla cieca, dalla biblioteca (non necessariamente la mia), proprio per reperire un punto di riferimento-orientamento allo smarrirsi fatico (perché di smarrimento del dire critico, comunque, si tratta) un contributo nutritivo, un conforto che viene da altro pensiero. La stampella rassicurante delle 'sorti'. Tu dici, nel tuo rispondere: "Guarda caso, anche la materia, come l'incisione, occorre tenerla a bada, altrimenti ti prende la mano e ne approfitta. 'Inventa' per conto suo. Adesso mi concedo una citazione, è la prima, l'ha scritto Seneca nelle Epistole Morali. Condivido pienamente. Come sappiamo, una cosa è l'irripetibilità del gesto, un altra l'"effetto". Una trasmette visivamente un particolare stato d'animo, l'altra, per quanto strabiliante e ugualmente irripetibile, trasmette solo il volere del caso". Per me, appunto, in questa mia operazione, c'è saliente il volere del 'gesto', così significativo, liberatorio, cauto e curioso, nella sua tentatività: molte volte l'ho sfangata, o per lo meno me ne illudo io, i destinatari non so quanto vogliano condividere. Il gesto magnifico e tremante (sorrido, ovviamente) di 'estrarre', da una diga trattenuta d'idee e parole, schierate sull'orlo della riva bibliotecaria, la parola fatalmente giusta (non voglio stabilire un legame tra fatico e fatale, ma certo, quand'hai gettato la parola-chiave, il misfatto è ormai tratto). T'ho detto, poesia, che non è che poi io frequenti così familiarmente. Ma appunto, come son convinto che sia molto più facile parlare criticamente d'una pittura prosastica, non dico aneddotica, ma descrivibile, circoscrivibile, son convinto ch'esista una pittura, chiusa in se stessa e sequestrata ai significati, che è inutile, superfluo, canzonatorio perfino perimetrare con il metro geometra ed un poco pedante, ragionativo-sistemante, della prosa esplicativa. Come se altra 'canzone' ci vuole. Ora, una pittura aforismatica e lapillare, come la tua, che procede per ellissi, omissioni e ripensamenti inflitti alla profondità delle superficie, finirei per dire che può riflettersi soltanto, così mi pare, nel linguaggio enigmatico e frammentario, lampeggiante, della poesia. Ovvio, se uno fosse poeta, tutto risolto: molti critici ci si son pure provati, hanno saltato il fosso delle barriere stilistiche, magari piantando qui e là, a caso, la barretta nomade e casuale dell'enjambement smembrante, là ove il discorso critico un poco si flette e smolla. No, io credo che sia più salutare cercare altrove, e chiedere ausilio forestiero, non dico ad una poesia che debba esplicare e commentare, ma che doppi ad eco la voce stessa, rauca, della pittura, che ha raggiunto il privilegio vertiginoso del suo stesso silenzio. Te l'ho detto, che mentre pensavo a come districarmi da questo gomitolo d'inquietudini e stanchezze, m'è venuto in aiuto un amico semiologo, nella Romagna, che aveva sprofondato il telefonino dentro le pagine rare d'un libro sulle immagini, e l'ho avvertito, che non lo cercasse invano. Ho capito invece che l'usava consapevolmente come grasso segnalibro, e allora m'ha regalato una citazione di Virginia Woolf, non poesia dunque, e senza nemmeno bisogno del mio propiziatorio gesto estrattivo, dalla biblioteca, ma come se mi venisse incontro come un viatico generoso su ali surfeggianti, una citazione che ho bevuto con rapimento e che mi sono subito affrettato a trascrivere, con la mia ormai non più grafia riconoscibile, su un taccuinetto estratto alla meglio. C'è voluto non poco sforzo a restaurare quelle frasi dalle circonvoluzioni capricciose, e troverai, sicuramente, ancora qualche lacuna grammaticale nel testo, che rendono anche più enigmatico e misterioso il significato del pensiero della Woolf, ma mi sembra comunque perfetto, per questo nostro discorso, appena imbastito, sul 'silenzio' della pittura. Noi guardiamo sempre la pittura dal nostro punto di vista, di chi vede, ammira, giudica, dall'altra parte comunque della barricata, e allora sinestesicamente ascoltiamo: sensi, parole, racconti, significati. Stanze, canzoni e ballatette. C'è una pagina magnifica, in Eupalinos di Valery, in cui lui ascolta vigile l'urbanistica 'murmurante' della città, e ci son case che parlano, altre che stanno mute o addirittura che cantano, sguaiate o felici. Però non ci domandiamo mai veramente che cosa 'vede', la pittura, non saltiamo mai davvero al di là della superficie-schermo, per capire se ha senso domandarsi che cosa possa dire o comunicare una tela. Non so se te lo sei mai domandato. "Vi sono due edifici sul medesimo marciapiedi, lambiti incessantemente dalla medesima marea: la National Gallery e la National Portrait Gallery. Per entrare nell'uno o nell'altro edificio basta attraversare un cancelletto girevole e, in certi giorni della settimana, separarsi da una moneta di sei pence, tra il flusso rapido e professionale della folla e gli autobus che nuotano coraggiosi in superficie". Mi pare già un buon inizio: che cosa ci spinge a sospingere il cancelletto d'un Museo, a varcare questa laguna della Morte? Non posso non pensare al significato simbolico-bellico delle "Tre Ghinee", pensando a quei sei penny dispensati come con titubanza, solo qualche giorno (e penso all'entrata libera d'oggi, alle National, grazie al ricatto di sir Dennis Mahon: che altrimenti si riprende i Guercino donati, 'regalati' a tutti, ai senza-biglietto). "Non capiterà a nessuno che abbia un senso plastico altamente sviluppato di pensare alla pittura come all'arte del silenzio. Tuttavia questa opinione è probabilmente alle radici della comune avversione degli inglesi per i quadri affissi al muro". Potremmo pensare di contraddirla, pensando appunto a Holbein, Van Dyck, Batoni, a quanto ha fatto l'Inghilterra di Reynolds, Gainsboroug, Hogart e Turner, per ottenere certa pittura ("avversione"?) ma sarebbe una sciocchezza e poi la Woolf parla qui in fondo del common sense. Diamo per scontato, dunque, questo mutismo anglosassone, vendicativo e risentito, nei confronti della pittura, 'che non ci parla' e proviamo a guardare la pittura dall'altro lato. Mi piace questo frammento della Woolf, proprio perché, poeticamente, non si spiega sin in fondo, s'attorciglia misterioso nel percorso, si rivela appunto rapsodico e chiuso, come una lirica. "Eccoli lì, le tele, nel successivo passare dei secoli, che ci abbandonano, indifferenti, nelle difficoltà private, come nelle calamità pubbliche. Non strappiamo loro alcun messaggio, di ciò che vedono attraverso le sale, non sono sicura, forse una gondola a Venezia, centinaia di anni fa. Le nostre passioni, i nostri desideri, l'entusiasmo del momento, i problemi transitori, non ottengono consolazione né soluzione. Sotto lo sguardo solenne scoloriamo, rinsecchiamo, e scompariamo". Che è immagine per me bellissima e forte, come quella dell'indifferenza ai nostri guai, chissà se condividi. L'inutile indifferenza della pittura (poi io, ovviamente, corro subito in un museo, a confortarmi). "E tuttavia non si può negare che se la nostra resurrezione, dovesse verificarsi, sarebbe singolarmente nobile, come un risorgere purgati e purificati, privi della lingua, è vero, ma liberi dall'impertinenza e dalle pretese di quest'organo, troppo attivo e vivace". Liberaci, o signore, dalla nostra parola, dalle nostre parole. "Il silenzio risuona vuoto e solenne, come la cupola di una cattedrale. Che tale sensazione non sia di natura estetica diventa evidente assai presto, perché dopo uno sguardo muto e prolungato, la stessa pittura sulla tela comincia a distillare parole, non parole di scrittura bensì come tante indolenti gocce lente che potrebbero macchiare la pagina di colore, ma non dirci definitivamente di che tipo di parole si tratta". Significativo anche questa chiusa di frammento, questo sgorgare tardivo di sudore pittorico, che non è fatto però di parole traducibili, trascrivibili. Ecco io vorrei soltanto 'macchiare' di quelle parole zitte la mia pagina, offrendo un'ultima possibilità ad un poeta infelice d'incaponirsi nei suoi esoterici versi, che mi son parsi così di contributo. C'è sempre una figura femminile contrastata, in lui, che s'agita o tace, in controluce, che vivifica il second'atto d'ogni poemetto, e che ovviamente non trovo in te, come non trovo figure, se non internate, consunte, larve o filigrane, nella tua pittura, com'invece eran vistose e battagliate le forme, nella tua grafica. Gelide parvenze, appunto: velo masticato dal tormentarsi insoddisfatto ed omicida della spatolata ("un corpo dietro un passo senza peso".
Partiamo da zero, zero quanto mai leopardiano. "Gelide parvenze/ la vita acre dei segni/ conosco". Un'exergue, un attacco che m'avvicina subito a te, soprattutto in quel gioco incrociato tra "conoscere" e "sapere", che non si equivalgono. Qualche cosa che mi pare informare anche la tua pittura, sapientissima ed insieme straziata, nel silenzio percussivo delle non-risposte, pittura che conosce ma non sa. "Non è finito lo spazio./ Io mi corrompo. Non so l'aurora quale il ladro/ del tempo rapido senza scampo./ E' murmure/ il suo sonno a una risposta a sommo/ di una tomba nascosta che ti trasporta/ e, di trasporto in trasporto, è il suono/ dell'esser felice/ gioia non tersa/ calma nel suo fondo. E se nel suo velo/ un corpo dietro un passo senza peso/ vede, triste io ti domando. I cieli/ sono sciupati, emersi dentro un raggio./ Nell'isola che li contiene/ è una rondine felice". Io non saprei certo dire meglio, di te. Forse sbaglio, m'illudo, mi suggestiono stoltamente, ma non certo per il turpe escamotage di non volermi occupare di te, frontalmente, quasi non volessi compromettermi, o non sapessi che dire, altri mandando, in avanscoperta, pilota vigliacco. No, mi sembra perfetto qui, quel parlare di "cieli sciupati", emersi come un S.o.S entro quel lago circoscritto, tombale della lastra pittorica, ove "lo spazio non è finito". Ma procede in quella perenne corruzione verticale della superficie e della materia, in profondità, che altro non mi pare essere che il quotidiano accanimento pittorico, o poetico, che non è cosa poi molto diversa (anche nel non-dipingere in fondo è trattenuta la stessa nevrosi). So che non può esistere volo di rondine, nel tuo dipingere, e non vorrei certo cercare una corrispondenza pedissequa, meccanica, ma in fondo, se l'immagine, baudlerianamente, non fosse troppo poncif, potremmo anche avanzare di credere la pennellata, costretta e carcerata, come un goffo corrispettivo di volo di rondine, nella luce claustrale della tela (non è forse bella quell'immagine del quadro, come "isola che contiene"?). E così, quando, riluttante ad aprire il mio scritto, indolente come un ragazzino ai compiti costretti delle vacanze, ho estratto come per sfida, dalla vecchia non mia biblioteca, un libro corposo, rosso, in mezzo ai familiarissimi Cantos e a Machado e a Salinas, che ben conoscevo (Salinas l'ho usato altrove, per un altro esperimento similare) il rosso libro, incanestrato Lerici, d'un nome a me quasi sconosciuto, Lorenzo Calogero, ed appena mi son tuffato goloso a sfogliare, credo proprio questi stessi versi che hai sotto gli occhi, ebbene io ho riveduto come in lampi spenti, la tua stessa pittura -con quella strana felicità luminosa del colore (avevo scritto dolore, che lapsus... quasi il colore fosse in realtà il dolore della pittura - penso agli occhi malati di Degas) del colore e della perdita: quella gioia come sepolta e trafficata dal bisturi-pennello, che affetta l'aria e sarchia i terreni e che qui, "gioia non tersa, calma", si deposita poco a poco, nel dipingere affaticato della parola, dentro "la voragine viva". Anche Caproni osserva: «.... non lascia dubbi sull´autenticità e nobiltà del suo messaggio, che è quello di una disperazione ormai così alta, e calma, da non conservare più traccia di romantico dolore, o d´esistenziale sgomento o tremore...".
"Perché io ancora non intendo/ e poco so e la lava riaccende/ sulla pietra i colori la luce casta/ selvaggiamente cinge i tramonti"... ancora una volta, qui, ho l'impressione di trovarmi immancabilmente immerso entro una tua veduta interiore, non so se farnetico, e non vorrei nemmeno suggerire, a chi magari leggesse, delle sovrimpressioni scolastiche, rigide, tra testo ed immagine, che io sento aleggiare come in trance. Meglio lasciar correre il pensiero. "Poteva essere un tuo dono/ riceverti ed attenderti in questa tua ora/ o disperato abbandono dove sapevi cedere/ e non incedere, cadere polvere liquida/ che scorreva da anni nel suono/ gamma lucente o iride nel vuoto". Cedere, non incedere, così fa il pennello, cedere della luce e del paesaggio. Anche se, ancor più fedelmente, è bello immaginare che un poeta 'veda' già, dentro una visione pittorica, che verrà molto tempo dopo di lui: è una circolarità quasi medianica, che un po' mi lascia ditate di sconcerto. "Quando dal cittadino murmure/ si sveglia il mare o così deserto/ pianamente accanto caduto è il sole/ ad occidente/ odo altro suono./ L'alta marea del sogno mi sorregge/ o io più non rispondo di me/ o di sé o di chi pose in altro luogo/ una distanza incerta. Una solitudine/ s'accende: era pure calcolata/ sopra una regione languida e morente/ (...) Entro un tempo rapido in un lampo/ erano ugualmente due a due/ mortalmente disegnati/ labbra di marmo o nastri di alabastro,/ ed io non mi ricordo di essere/ nel peso del suo grembo vergine/ perché uditi erano fuori/ i suoni, in altro luogo erano/ davvero i colori". In altro luogo, erano i colori. Che come i versi si susseguono, scoscesi, senza il busto ingessante d' una logica sintattica: colore destrutturato e colto. L'alterità del vedere pittorico, di cui abbiamo sin qui parlato. Quel vedere i quadri dalla parte del vedere: labbra di marmo e nastri d'alabastro. Trasparenze, che sono rinnegamenti, in verità, maschere cieche del colore che copre ma non medica l'assenza. "Caduto il sonno/ il suono cieco riemerge/ ed è lugubre una magia/ da cui mi tenni nascosto. Il volto/ è un continuo disordine/ un cadere cupo nel folto. Più non so rispondere/ se non per discendere/ o è troppo...". Il volto: autoritratto metaforico del dipingere, come continuo crollare (e riposizionarsi della maschera cromatica) del costituzionale disordine creativo. "Un cadere cupo nel folto": lo ripeto, quel verso stregato, perché è in fondo questo la pittura, la poca pittura vera dei nostri ultimi anni, penso a Romiti, a Ruggeri, a te, appunto. "Perpendicolarmente a vuoto/ tracce erano, limiti, e da questa parte/ il vento/ in prati ove non si odono/ cose di cui non mi ricordo;/ e sai quanto noioso un ramo/ era e mi guida e dall'aria/ mi divide che non amo. Più non riconosco/ una larvata presenza di essere,/ un'usanza di crescere e non basta:/ se mi soffermo un poco un soffio/ era già troppo e il resto. Sinuoso/ e sveglio un vano respiro d'albero/ corrompe me pure in una dolcezza varia./ Una levigatezza che apparve nello spazio/ soffre il vuoto, il disordine, il discendere/ dell'età morente. Un alito ricrebbe nella guazza. // I sottintesi richiamo un respiro d'aria/ una solitudine già odono". "...e le abitate tue solitudine". Proviamo con un altro chiavistello. "Per quanto i sogni siano proclivi,/ non è l'odor del fondo e freddo/ raccolto ciottolo che ti mantenne,/ non è una tregua simile all'addio/ la sete calda delle tue promesse,/ nella febbre del tempo tremulo/ che t'infastidisce./ Ad onde il suono gelido marcisce/ nella voragine viva che ti vince./ Un freddo torrido già sale in gola./ Uno scroscio è uno screzio/ che addolcisce il fuoco/ nel murmure d'una tua parola./ Non so in qual guizzo sia il passo distante/ già fumo e sonno che ti tradisce". Dunque non parola organizzata, ma "murmure", termine che torna così insistente, in Calogero (memoria pascoliana? "Un murmure, un rombo.../ Son solo: ho la testa confusa di tetri/ pensieri. Mi desta/ quel murmure ai vetri. Che brontoli, o bombo?/ Che nuove mi porti? E cadono l'ore giù giù, con un lento/ gocciare. Nel cuore/ lontane risento parole di morti.../ Che brontoli, o bombo?/ Che avviene nel mondo?/ Silenzio infinito./Ma insiste profondo,/solingo smarrito/ quel lugubre rombo". Certo non D'Annunzio, che pure amava). Ed ecco così materializzarsi ai vetri del pensiero l'esile 'murmure', fantasmatico quasi, dell'albero stento, che vedo vien sempre più occupando anche il tuo orizzonte, orizzonte di sfondi pittorici classici, alberati, ponentini (condivido il riferimento a Cima, a Giambellino, direi pure a Bartolomeo Montagna e Diana, un po' ghiacciati nella loro bellezza d'alba smaltata) ora come zoomati d'impeto grandioso (pur nella miniuaturità) da una miopia violenta e caparbia, come portati in repentino primo piano, per svicolare, e scampare in extremis, l'asfissia.
"Erano gli alberi del mattino/ più stridenti, più odorosi della scrittura./ Io li guardo liquefatto/ perché tace la terra o è pura./ Poi si volge la sagoma/ dell'antico declino torbido della vita/ nella luna. Ruvida non ritorna/ indietro più una ruga. E' giunta/ all'apparato che la sfiora. Con lugubri/ magie una luce è smussa/ smussa quanto la siepe è dura". Cancellando l'ippica del guardare leopardesco, che tornerà presto, nell'altro poeta: non so e mi domando, se 'smussa' sia aggettivo che ti torni. "Domande si sono mosse senza nome/ domani e l'albero alla riva, discosto/ composto ad amarsi. Queste righe/ queste seriche strisce sono sbocciate da larve". Domande (di serica scrittura strappata) e subito d'innanzi, repentino, l'albero 'composto' ad amarsi, sostanziato di larve e di "detriti" luminosi . "Si elidono le parole,/ poi chiedono di essere sole,/ poi la raccontano, amaramente/ ad un ciottolo". E qui converrà anticipare due righe di biografia: isolato, inviso alla famiglia, per suo stesso volere, transitato d'asilo medico in asilo, talvolta senza grandi vere ragioni, lui medico e patofobo - un giorno convinto d'esser colpito da tubercolosi, l'altro abitato da cancro, persino dei suoi "terribili fatti emorroidali" racconta drammaturgicamente ai pochi amici - Lorenzo Calogero, nella sua aspra, invitta Calabria, impossibilitato d'amare e ricevere amore, ma sempre innamorato di tutto e soprattutto delle povere riluttanti donne del borgo (come la per lui mitica infermiera Concettina, così poco curativa, che tutto si riceve, in dedica, sua unica dote possibile, ma nulla mai gli concederà). "Son vissuto nella mia professione come se scrivessi versi".
Tenta due volte il suicidio, o più, probabilmente: ma è come, lo vedremo, il ripetersi ogni volta d'una rima incagliata. E poi torna cocciutamente all'avello della sua poesia, unica dannazione-conforto. Rifiutando il cibo, solo nutrendosi di caffè nero, di libri, di farmaci. Ma il suo nulla, il suo esser davvero e geniale "poveruomo, forse nessuno", è ricco, comunque, 'smaltato di smalti' , definizione elementare ed in quest'occasione, per entrambi, mi pare illuminante. Lo smalto nero del sogno impossibile di maritare un'arte: "E sembra un sogno, ma non ho nessuno./ O anima, o madre dei poeti/ e al tuo benigno regno, io poveruomo,/ forse nessuno. E languisco nelle tenebre/ che mi ha lasciato il tuo smaltato/ smalto, io due volte, pronto,/ sul punto di uccidermi e anche questo/ mi assale in dubbio. I detriti potranno fare/ povere cose miracolose e questo mi sale/ al labbro, ove io avevo un punto povero/ un punto povero di poeta...". Non si definisce forse anche 'punto' ("punto di giallo") il minimo momento nevralgico del cangiare delle cromie? "Compreso il sonno, il sogno/ su la medesima aridità/ sopra un opaco legno, mutato/ lo smalto, s'inclina e legge./ Scintillante è una vena, nuda e svagata lena./ Una luna non più s'intenerisce/ e lenta era. A riprenderti/ agevole era prima; sempre/ sopra una fievole china". Non posso non notare come dalle tue opere di pittura, le chine dei tuoi paesaggi negati, l'amata luna, che tu stesso definivi friederichiana, si sia ritirata ed infrattata, nelle spire dei mille detriti di luminosità gessata, imbiaccata, impaniata. La luna, sommessamenre semplice. "Su la sommità era smossa/ la luna sommessamenre semplice".
Due righe ancora sul poeta, ch'è stato 'salvato' dall' "attenzione" necessariamente assediata, distratta da mille altri lavori, notturna, di Leonardo Sinisgalli, e dalla curatela di Giuseppe Tedeschi, che pubblica il primo volume (se ne annuncia un secondo, che scommetterei non avrà visto mai la luce, in quella corposa e catafratta collana Lerici dei Poeti d'Europa, mai trovata una traccia nelle librerie bibliofile. No, adesso scopro da internet, incredibile, che non solo il secondo volume è uscito, e subito dopo Lerici è fallito, e ce n'era un terzo, in annuncio, curato da Amelia Rosselli, ma che negli anni, sotterraneamente, Calogero è diventato uno scrittore, segretamente, di culto, si susseguono convegni e studi, sentiti i commenti tardivi di Luzi e Caproni, più cauto l'elogio di Montale, in uscita del volume, sul Corriere: ancora perplesso. E pare che sia anche favorevolmente citato in alcune antologie). (Mi scuso, anzi, se qualche errore m'è sfuggito nella trascrizione al computer. Il volume ormai m'è lontano, irreperibile nelle biblioteche). Tedeschi, che scrive: "Per la poesia Calogero ha consumato tutto, il suo fisico, il suo cuore, il suo intelletto, fino alla menomazione e alla follia". E Sinisgalli, con quasi brutale sincerità (ma l'edizione, come sempre, è postuma): "Ha avuto tanti guai, vive in un paese sperduto della Calabria, solo e abbandonato, nessuno lo conosce, io stesso l'ho scoperto per caso, vedi che può capitare in questo paese: se non si è nel giro, non si esiste... Gli ho fatto vincere un premio, gli ho scritto prefazioni. Non se ne è accorto nessuno". Lascia la Calabria (un paese dal nome stregato, quasi da fiaba perfida: Melicuccà) sesto figlio d'una famiglia di possidenti-farmacisti, per farsi medico riluttante a Campiglia d'Orcia, nel pieno del senese (forse conosce Tobino, a Lucca) dove addirittura lo dimettono, dopo due mesi di prova inetta. Ma tanto lui non avrebbe retto alla lontananza, pur d'una terra che dice di odiare (solo la madre ama e idealizza). Pubblica a proprie spese, dall'editore Maia (e che bei titoli: "Poco suono" e "Avaro nel tuo pensiero") ponderosi tomi gonfi di miriadi di versi, 10-15 mila diagnostica Sinisgalli, che a ripetizione, e lo confida anche a lui, e lo mette per iscritto, nelle sue vive prefazioni, definisce tranquillamente "insensati" (altri parleranno di un miscuglio di Lautréamont e Artaud, per via della sofferenza). E "groviglio insensato", gli fa eco Tedeschi, che teme di rimanervi impaniato) "E' un groviglio qualche volta insensato come un arbusto che geme al vento o il lampo incerto che riusciamo a ritrovare nel brulichio della memoria. Una poesia dentro cui l'autore sembra sepolto. Non resta una storia, una figura, un oggetto, ma solo il fluire di una vena, l'incanto di una voce" "Ingolfato sempre più nei grandi miti della poesia e della filosofia pessimistica. Ma ormai che l'abbiamo come 'svelato' (nel gergo, anche, del restauro) possiam ben intuire che cosa volevano significare, parlando d'insensato: poemetti tramati quasi in trance, lontano dall'uncinetto confortante dei significati certi, la sintassi slacciata e trafelata, anzi, sine sintassi. Prima, Sinisgalli cerca di convincere almeno Tedeschi: "Versi pubblicati in tre libri fittissimi, a pagamento, bisognerebbe fargliene pubblicare uno, non può rimanere abbandonato, gli si deve qualche soddisfazione, almeno per questa furia mostruosa che ha nel costruire versi e nel dedicarsi alla poesia, sua e degli altri..." E sul Paese sera del '62, quando il caso giornalistico si è già sgonfiato. "Se la critica abdica di fronte ad un libro così ricco, vuol dire che ci sono poche speranze, perché la poesia possa ancora sopravvivere...". Così Sinisgalli rimarrà sempre polemico, con i suoi colleghi paludati, che si son comunque rivelati insensibilmente refrattari e freddi, agli invii e ai suoi solleciti, al punto di progettare contro di loro una poesia-invettiva, tenera e feroce, ora in "L'età della luna", titolo abbastanza calogeriano. L. C. , nome e cognome, citato testualmente nei suoi versi, come un giorno in pretura della Poesia. "Quale vergogna per voi/amici vittoriosi,/ splendenti,/ quale scherno alla vostra boria/ la sfortuna, la miseria/ d´un uomo inetto, innocente! Lorenzo Calogero da Melicuccà/ è venuto a chiedervi pietà/ in nome della poesia./ Come un cane infetto/ ha raspato alle vostre porte/ nessuno gli ha aperto". C'è una bellissima e terribile fotografia 'turistica', forse a Venezia, chissà chi gliel'avrà scattata, non certo un amico, più probabilmente un fotografo ufficiale-ambulante, forse davanti al Duomo di Milano, con la gran cartella gonfia di pegamoide ed inascoltati (stavamo per dire insensati) manoscritti, con la testa sbilenca dell'uomo già vinto, frenato nel passo da una selva di piccioni, unici ammiratori del suo mais generoso. Roberto Roversi intravvede una somiglianza con La Pira, "occhiali tondi ed antichi, come dice Tedeschi". La prima volta Sinisgalli non è in studio, Calogero non lo pre-viene e va in scacco la visita, con grandi ambasce. Poi il prim'incontro, che sarà intensissimo e non s'interrompe, per un giorno e una notte, intera. Poi lo 'passa' al meno oppresso Tedeschi: "Passai tutto il giorno con questo Calogero. Ore anormali, al cospetto di un uomo che distrugge tutta la vita organizzata di un individuo, tutta la sua carica di autoconservazione e voglia di imposizione nella vita. Una figura pallida e disordinata, suggestionante e dispettosa, apparentemente senza storia, o espressiva solo di storia casuale, inconsapevole, a cui tutto capita per ineluttabilità. Figure apparentemente inutili che pure riescono a condizionare, illuminare o deprimere tutto ciò che le tocca. Lo ricordo benissimo morfologicamente: piccolo, magro, storto, tra Leopardi e Tristan Corbière. Perché il poeta rischia in ogni pagina di sembrare insensato, astruso, assurdo, rischia di non dire niente. L'operazione temeraria che egli conduce ha proprio l'indeterminatezza di certe analisi portate sulle qualità sfuggenti, di certe indagini al limite della catastrofe". Quando, con gentilezza (ha già ricevuto il rifiuto secco dell'Einaudi, un giorno che vi si è recato per trovarvi l'editore, questi non è in casa editrice o non si fa trovare, hanno pure smarrito il manoscritto) Vittorio Sereni, fresco redattore mondadoriano, gli prospetta un "no possibilista", dopo una sentita, dolorosa lettera di riinvio del manoscritto e poi, ancora, congiura, per una fatale coincidenza di esubero di materiali, Vigorelli rimanda d'un numero l'attesa pubblicazione d'un mannello di poesie, su l'Europa Letteraria ingolfata, il poeta non vedrà mai le sue poesie pubblicate, venendo a morire poco dopo) Calogero, che appunto è già vicino al morire - si è sempre pensato ad un suicidio, magari di sonniferi (la prima volta era stato il fucile al cuore, la seconda uno svenamento in stile Seneca...) Calogero risponde: "Ho capito ormai e da molto che mi trovo in un mondo alquanto misterioso. Prima speravo che sarebbe finito e che sarei rientrato in una certa normalità di vita. Mi accorgo adesso, o meglio, faccio la triste esperienza che quel tale mondo che avrei desiderato come una specie di normalità al mio genere di vita, a quella tal vita che mi sono costretto a vivere, non verrà mai più. E tanto già se tu mi degni della tua amicizia". E' commovente anche l'epistola di gaddesco tremore (ma pare molto anche quella di Van Gogh, che rifiuta alla soglia della morte l'onere d'essere riconosciuto, quale genio, dal giovane critico intuitivo e intraprendente, che lo vuole visitare e lui lo scoraggia: allontana da sé il calice della celebrità). Anche Calogero ha brigato tanto, ma ora è come titubante e la sua è una lettera di lealtà, a Falqui, che tanto ha brigato per fargli ottenere il premio Villa di San Giovanni. E' una lettera di onestà profonda e di abissale ingenuità, lui stesso non sarà come reagirà, a quel fiammifero effimero di celebrità. "Non le nascondo tuttavia che aver partecipato al concorso mi pone in uno stato di disagio per quel tanto almeno di possibile notorietà che potrebbe derivare al mio nome come poeta. Ella non sa o sa ben poco della mia vita e può sembrarle ben strano un tale senso di disagio, all'atto in cui avevo deciso di partecipare mi sembrava che avrei potuto sopportare un tale rischio con molta disinvoltura, ma potrebbe darsi che non sia così, non le dirò certamente di decidere Lei della decisione da me presa, ma a Lei, come amico che mi ha dato un consiglio, non potevo non dirLe i miei sentimenti, stabilirà un po' Lei, come e quanto essermi effettivamente utile". Tutta la sua esistenza, lui ha 'provato', adesso alle soglie di raccogliere qualche acerbo frutto ha paura. Ha provato, da sempre, con Bargellini, di cui da giovane ha scoperto "Il Frontespizio", ha bussato alla scrivania di Betocchi, mandando assaggi per le edizioni Vallecchi, forse lo ha perfin 'scavalcato', scrivendo direttamente all'editore fiorentino stesso, ma nulla. Ha una lunga prassi di lettere d'auto-presentazioni, sconfitte. La prima dice: "Illustre Sig. Ing Leonardo Sinisgalli" ed è firmata da "Lorenzo Calog.", proprio così, abbreviando il proprio narcisismo, buttando via il suo cognome, frenandoli a metà. "Come vedrà dalla mia scrittura e dal mio nome che figura già sulla carta intestata sono a Lei completamente sconosciuto, e sebbene non più giovane - sono della classe del 1910 - né per questo o per altro la prego di trascurarmi per ciò di cui La richiederò nella presente". Elemosina una recensione, dunque, ma non se ne vergogna: gli basterebbe esserci, citato nella penna di qualcuno che stima: "anche se dovesse dirne tutto il male che si può immaginare. So che anche in tal modo ci guadagnerei. Si dovrebbe vedere sempre se Ella ritiene opportuno far guadagnare in tal modo ad uno sconosciuto, che pure fra gli amori più vivi della sua vita ebbe quello della poesia". E a Vallecchi, da 'uomo di commercio': "Sento la necessità di sbarazzarmi al più presto, obbligando anche la mia famiglia a qualche sacrificio dei miei libri di poesia, poiché prevedo una prossima fine. Scusi se le dico tanto. Non è mia volontà di affliggere nessuno, per cose per cui non mi si può dare alcun aiuto". (No, non è un ricatto meschino, un gioco à la Bevilacqua, lui è davvero già come morto). Lo sa bene Sinisgalli "L'autore di questo libro ha pagato caro la sua follia: venti anni di vita oscura, senza amici, senza complici. E ci si rende conto, ammirando l'estensione del suo dominio, che da tanti anni egli non si poteva distrarre neppure un momento. Un fenomeno raro nella storia delle nostre lettere, una dedizione disperata e mostruosa. Si può capire tanto ardore avanzando delle ipotesi, fabbricando noi un retroscena o un sottosuolo per giustificare una carica di energia così insolita. Ma al poeta è bastata la sua natura, il suo sentirsi vivo soltanto per esprimersi". E ha intuito anche la sua matrice visionaria, pittorica. "Ha allineato degli eventi in un flusso inesauribile di parole, la vita acre dei segni per cui l'arabesco, che è senza dubbio l'acquisto più glorioso delle pagine più aperte, non è mai nomenclatura o contorno, ma diventa esso stesso, più che strumento, sostanza spirituale. Siamo, è chiaro, di fronte ad una poesia colta, che, però, scarta il lusso intellettuale, l'enciclopedia, la sublime futilità, si preclude la scoperta fortuita. Quando dico arabesco, voglio sottintendere un'algebra, un'ottica, una fisiologia, più che una calligrafia. Pensate all'iter Cézanne-Matisse-Klee, al Klee di quella memorabile epigrafe: "Sono inafferrabile. Sono vicino al cuore della creazione più di quanto è possibile e tuttavia non quanto vorrei". Sinisgalli capisce che non è possibile, di lui, offrire un'antologia, ripulita e perbenista, vendemmiandolo con severità "al punto da isolare nella vigna i grappoli incorruttibili. Mi sono accorto subito che non riusciva facile resecare le cellule di un tessuto sempre in crescita. Avrei messo insieme un museo, un atlante, avrei raccolto dei fossili e dei cristalli e sacrificato la virtù più segreta dell'opera, la sua linfa, la sua vena. Senza questa tensione le parole non sono che cadaveri. Egli descrive un sogno così minutamente, lo districa come fosse un materiale misurabile, la sostanza di un'altra vita, più resistente della morte-. Un'opera così serrata non può essere il frutto di illuminazioni improvvise, non si giustifica come una scommessa o un miracolo".
E' quanto succede anche a me, che non riesco a staccarmi, a recidere il cordone ombelicale dei suoi versi intricati, tu dirai, ma che c'entra con la mia pittura? Parla di me... Anche il poeta del "Furor Mathematicus" confessa quest'incantagione: "Tutto il mio tempo disponibile, le ore notturne, io le ho dedicate alla lettura di questi versi, tra la fine di dicembre e fine di gennaio, non mi rammarico del tempo perduto, anzi sono felice di testimoniare per primo di aver percorso e scoperto per primo le meraviglie di questo nuovo continente, che viene ad allargare il dominio della poesia". E siccome nessun amico-collega sembra dargli retta, li chiama in causa, uno a uno, tentando di "restituire la fiducia nei poeti": da Cecchi ad Anceschi, da Bo a Pampaloni da De Robertis a Contini a Ferrata, la lista marziale coivolta, è molto più fitta. Nessuno praticamente abboccherà. Tedeschi protesta invano contro questo mondo di mestieranti della critica, di "arrancante storicismo utilitaristico e consumistico. Può dirsi storico quello storico che storicizza soltanto dati e nomi di parte vincente e pagante? Può dirsi antologista quell'antologista che sceglie autori e testi soltanto su indicazioni di clan e di logge? Tutto ciò è successo e continua a succedere nei confronti di Lorenzo Calogero, poeta senza potere e senza violenza, senza clan e senza logge, senza commerci e senza editori, poeta senza ricatti". Oggi vedo che se ne parla, a credere per lo meno a internet, ma è anche vero che dopo un momento di euforia giornalistica, all'uscire del libro di Lerici, "il caso Calogero", tutto è poi tornato nel silenzio, come riferisce anche Roversi. Lette sulla rivista L'Europa letteraria, dopo le pagine di Calvino, sul Quaderno Americano, quelle poesie gli paiono "esemplarmente strazianti, staziate, miracolosamente intatte, pur dentro al terremoto dei sentimenti, luminose, come veli bianchissimi fluttuanti sul fuoco dell'inferno, prima di avvampare". Poi esce il libro, "un libro di attenzione alta, che interruppe nell'88 l'ancor gelido silenzio critico ufficiale, su questo poeta disperato e tempestato, che ricercava come accecato dall'affanno, a tentoni, allungando le mani, il contatto con altri che fossero almeno disposti ad ascoltare con attenzione la voce e ancora la voce, la forza come una spada insanguinata della sua voce. Per dare la giusta, non più tempestiva ma almeno e finalmente critica gratificazione ad un poeta che non deve restare più sommerso dalle acque, come una statua abbattuta e dimenticata. Deve essere riportato alla luce, urlante grondante solitario. E vivo". Una sola nota. Nella sua biblioteca sono stati trovati (scelgo a casa, ma con un disegno per me preciso) libri di Kiekegaard, Einstein, Schopenhauer, Hoelderlin, Novalis, Nietzsche, Rilke, Hoffamhastahl, Baudelaire, Mallarmé, Valery, Jaspers, Heidegger, Eliot, Campana, Saba, Tobino, Alfonso Gatto, De Libero, Zanzotto.
A Heidegger, e all'esistenzialismo, e quanto mai post-leopardiano fa pensare l'altro poeta, che mi è sembrato impressionantemente parlare di te, e non vorrei qui continuare a trovare ogni volta dei correlativi visivi, dei paralleli quasi automatici, vorrei che tutto fosse subito chiaro, a chi legge e magari guarda contemporaneamente i tuoi paesaggi interiori. E credo che sia davvero superfluo pensare di commentarli, quando già questi versi si pongono come didascalie esaurienti: nella scelta mi pare stia il mio discorso, non nell'arrabattarsi d'un blaterare critico.
Un poeta appartato, tardivamente improvvisato, che veniva dalla storia, il celeberrimo (manualisticamente) Fabietti del duo Camera-Fabietti, artefice efficiente del manuale su cui molti hanno studiato la Storia, sinché la nostra delirante destra non ha trovato da obiettare ch'era un testo sovversivo, insurrezionale! Ma lasciamo la Storia, e Fabietti alla sua poesia, nel romitaggio ultimo di Cetona (piccola plaquette trovata a caso nella stessa casa provvidenziale di Angela Bianchini, antica amica di Fabietti). A me, inoltre, le poesia paiono molto belle, nella loro "sommessa semplicità filosofica". Forse, dopo l'abissale Calogero, il povero, ordinato, borghese Fabietti, darà come l'impressione d'una caduta di tono, un ammainarsi improvviso di dramma e visionarietà. Ma credo che sarebbe un'impressione stolta. La poesia circola comunque, come nel sangue rappreso dei tuoi infornati tableautins. Finis historiae, che potrebbe essere un bel titolo, per questa tua monografica (spero si parta comunque da qualche tua precedente incisione, come fa, di te, per me, pure Fabietti). "Quando deserti lunari/ avvolgono la Terra/ nel cellofan del Silenzio// impassibile/ l'Universo di cristallo/ contemplerà l'abisso/ senza sapere// e gli ultimi umani/ capiranno tardi/ d'aver vissuto/ il Regno dell'Indifferenza/ la catena ferrigna/ della loro storia di sudore/ e di sangue/ sottratta ad ogni memoria/ per sempre". La pittura, Alzheimer smemorato e cocciuto delle nostre cose: perché ostinarsi a rifare le cose, se le cose già ci parlano, quotidianamente e bastano trionfalmente, chiusamente, a se stesse? E' il mistero della pittura, che da sempre m'inquieta, come tu forse sai, ritorno talvolta a Lascaux. Mi è più facile capire un poeta che si ostina su una parola-sesamo, più d'un pittore, che duplica le cose. Come osserva anche il prefatore del libro di Fabietti, Fulvio Papi, filosofo allevato alla scuola di Paci. "Una sapienza compositiva dei significati che non si è mai interrogata sulla possibilità che poesia sia solo un lavoro sulle mille parentele possibili delle parole, al di là della destinazione del senso: una forma e una poetica che sono passate lasciando impronte sempre più flebili. Ma se si ritrova, intatto, l'orizzonte del significato, viene quasi spontanea la domanda, inevitabilmente un poco aggressiva, del perché di una poesia, quali siano le evocazioni più forti che dominano il profondo e tentano di volare verso la luce del senso". Forse, davvero, è un modo protettivo e filosofico di non guardare giù, senza reti, dalla finestra sgomenta ed improtetta del Nulla, ancora una volta se vuoi la siepe misurante di Leopardi (e qui penso ancora al combattimento judo delle tue asta d'incisione, le dighe contrastate nei tuoi tanti tsunami d'acquaforte acida, repentinamente abbandonati). Fessura interstiziale del Nulla, infinito. "Le cose/ che non si possono dire/ aleggiano malcerte/ interstiziali/ come il nostro morire/ o il nostro voler essere/ e non riuscire/ e questa voglia/ di afferrare il senso/ della vita/ nella serie infinita/ di piccole cose/ che non hanno parole/ e rimangono sole. // Come le stelle/ nel cielo notturno/ lasciano spazi immensi/ interstellari/ vuoti allo sguardo / così' i fantasmi dei giorni/ aprono voragini insensate/ senza contorni/ dove si sperde il senso delle cose:/ andate ritorni/ come il moto perpetuo/ di un ordigno privo di senso/ e maligno". Piccole cose che non hanno parole. "Come rifusi/ tra la terra e il cielo/ andiamo alla ventura/ sospinti da un destino/ senza nome// e le nostre parole/ tessono una tela faticosa/ per impedirci/ di vedere il nulla". "Sciame pulverulento/ delle stelle/ dilaga/ nella volta notturna/ e lo sgomento/ invade ogni fibra/ del nostro essere qui/ che nel lampo abbagliante/ vede la dismisura inconscia/ che governa il Tutto". Di che stelle è fatta la materia dei dipinti? Quello che resta. "Siamo soltanto le parole scarne/ affaticate e stente/ che l'anima distilla/ fatta avara/ dalla ruvidità dei giorni/ indifferenti. // Siamo i silenzi fondi/ della notte/ dove vibrano accordi/ balenano volti e gesti/ nei lampi brevi/ della memoria". Pittura, come recipiente di rovine, di detriti, di frammenti scuciti (nel cellofan del silenzio). "Nel tempo informe/ si muovono fantasmi/ volti movenze/ addii/ brani del nostro vivere/ fermi nel vuoto/ immobile/ e gesti amati/ traspaiono/ che hanno segnato/ la morbida cera dei giorni". "Nell'onda lunga dell'eternità/ che travaglia/ ogni fibra dell'essere/ ab aeterno,/ vibrano/ frammenti infinitesimi/ del mondo:/ suoni colori/ eventi/ odio e speranze/ in un caleidoscopio rutilante/ nello scenario arcano/ che sovrasta l'anima/ meschina". Il retino della Pittura e la sua cera, solenne evocazione dell'oleato colore pastello. "Un vento sciroccoso/ lutulento/ impaluda il paesaggio/ smemorato/ del bagliore estivo". "E' scivolata via/ la vita/ tra le dita/ restano soltanto/ gli sterpi disseccati/ e le spine pungenti/ e pensieri/ come schegge di vetro/ taglienti".
E come senti che il tempo, allora, diventa il vero spazio della Pittura. "Il tempo/ questa sostanza/ di cose sperate/ nella fantasmagoria/ del ricordo/ o dell'attesa/ il tempo/ una tela sottile di ragno/ dove luccicano iridescenze labili/ dove ricade la polvere/ grigia/ dei ricordi sbiaditi.// Noi siamo il tempo/ nel battito/ delle nostre vene/ nel nostro passo/ che si fa malcerto/ mentre scabre/ emergono immagini/ nel brivido del disincanto". Ancora una volta io mi trovo in una tua tela. Immortalità. "Hanno un senso/ forse/ anche le stelle/ che sussurrano nei silenzi notturni/ quando scivolano/ colorati fantasmi/ di sogni e attese/ e affanni/ tessuto ambiguo/ della vita nostra.// Sì, come andate/ e ritorni/ della memoria/ per una immagine/ un gesto usato/ per un sì un no,/ per ribadire verità/ inesauribili./ Forse questa/ la nostra immortalità".