Silvio Lacasella
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Franco Marcoaldi
1997

Nel 1862, istallandosi al primo piano di un edificio di Rouen per dipingere le Venti vedute della cattedrale. Claude Monet aveva ben presente le Trentasei e dieci vedute del monte Fuji di Hokusai. A differenza del suo collega, però, il pittore francese era guidato soprattutto da ragioni di comodità.
Se invece che in quell'appartamento avesse abitato in uno al secondo piano, la cosa non avrebbe avuto alcuna importanza, ed egli si sarebbe limitato a comporre le sue variazioni da un'angolatura lievemente diversa. Al contrario, l'artista giapponese non vedeva nella montagna un semplice pretesto, bensì la meta di un lungo itinerario: impossibile immaginarlo mentre riprende venti volte la stessa veduta. L'essenza della sua arte sta proprio nel cambiamento del punto di vista, e certo è indicativo il fatto che, in tutta la sua vita, Hokusai traslocò ben novantatré volte.

Così Michel Butor, nei suoi Saggi sulla pittura ricostruisce uno dei più toccanti incontri avvenuti tra l'arte cinese e quella occidentale. Un'eco di tutto ciò continuerà a vibrare nelle pagine di Marcel Proust su Elstir, sommo “proto-pittore” capace di sconnettere e alterare il paesaggio.

“Una delle sue metafore più frequenti” e spiegato in A l'ombre des jeunes filles en fleur, “era appunto quella che, confrontando la terra al mare, sopprimeva tra loro ogni distinzione”, e ancora: “Un fiume che passava sotto i ponti di una città era colto da una visuale che lo faceva apparire interamente dislocato”.

Ripensavo a questa strana genealogia, euroasiatica scorrendo l'opera di Silvio Lacasella, ma non mi nascondevo come questo richiamo, tra i tanti possibili, risultasse indubbiamente il più scontato, non foss'altro che per un esplicito “Omaggio a Hokusai” del 1986, cui l'anno successivo faceva seguito la dichiarazione “Ora guardo con attenzione (...) a Hokusai”.

Trasloco, dislocazione. Cercando di descrivere questa pittura, posso almeno attenermi a una precisa sensazione percettiva. Per definirla, parlerei di un incombere, di un presenziare dell'energia, di un annuncio. Guardando le onde che montano nelle tele di Lacasella, il loro sostare in cresta, immobili in una lenta oscillazione, possedute dalla propria luccicante pienezza, ebbre di potenzialità, virtuali a se stesse, fissando le sue montagne che crescono, altrettanto mature di forza, trattenute ed insieme esorbitanti; notando certe di frane di luce la cui imminenza viene resa dal minaccioso smottare del pigmento; considerando tutti questi tratti, ho ripensato ad una pagina di Paul Claudel. “Nelle ore volgari”, si legge in Art poétique, “ci serviamo delle cose per adoperarle, dimenticando questo di puro, che esistono: ma quando, dopo un lungo lavoro, a mezzogiorno, penetrando storicamente attraverso rami e rovi, in seno alla natura, io pongo la mano sulla groppa ardente della greve roccia, l'Entrata di Alessandro a Gerusalemme è paragonabile all'enormità della mia constatazione”.
Ecco, è come se la sensazione di spostamento venisse proiettata nell'immagine. Qui non si muove l'artista, ma il suo soggetto. Anzi, per meglio dire, soggetto costante di tutti questi quadri è l'imminenza di un movimento.

Flutto o costone, alpeggio o marina, la groppa delle cose sta compatta e contratta, in procinto di agire, immersa in quel silenzio che, come una vigilia, precede l'atto. (Dirà un altro poeta: “Ognuno attende immobile, le spalle alzate, il viso contratto sugli occhi, il fragore tremendo. Così qui è il silenzio”). E' in questa frazione di tempo che nasce, si colloca e sosta la pittura di Lacasella, tutta rivolta a narrare l'istante in cui le cose si apprestano ad uscire dalla stasi. Valerio Magrelli 1994
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