Silvio Lacasella vive a Vicenza ma il suo nome è molto noto anche fuori dalle mura della città. Ha esposto in importante gallerie italiane e possiede una letteratura critica sul suo lavoro firmata da nomi prestigiosi che segnalano il notevole rilievo della sua esperienza artistica. Con Lacasella ci troviamo, innanzitutto, di fronte a una resa completa alla propria vocazione: qualcosa che Lacasella ha percepito come necessaria fin dagli anni della prima giovinezza, quando ha deciso che la pittura era la cosa che più gli interessava e ad essa si è votato con totale dedizione. Egli ha deciso cioè che il unico “job” sarebbe stato quello di incidere e di dipingere. E tuttavia non si trovano in lui mentalità o atteggiamenti bohémiens ai quali spesso indulgono i nostri artisti di provincia. Chi, vedendolo passare per la strada, avrebbe pensato che lui era un pittore “nommé”? Vestito così, come un normale e bravo ragazzo? Uno dei pochi qui da noi il cui lavoro sia conosciuto nei “milieux” artistici di Roma, di Milano e di altre città?
Certo, un vero artista raggiunge, prima o poi, la consapevolezza della solidità del proprio fare, ed è confortato dai riscontri che riceve in campo nazionale dalla critica più autorizzata. Ma vivere in una piccola città, dove la gloria è talvolta generosamente dispensata a valori incerti e improbabili, ha i suoi risvolti ingrati. Nasce quella sottile inquietudine che si accampa tra una residenzialità convinta e amata, e quel diaframma opaco che quotidianamente ti fa un po' sentire “persona separata”. Una città come Vicenza è un osso duro da rodere, anche per il cane lupo più dentuto; e non si sa quanto questo dipenda da disinformazione, e quanto da presunzione e cieca fiducia in una scala di valori chiusa ad ogni necessario confronto (...)
Si tratta di una mostra che testimonia il grande spessore e l'altezza dei risultati raggiunti. Affermazione, questa, che va doverosamente precisata con un altro rilievo. Non ci troviamo solamente di fronte ad una pacata e conscia maturità che esibisce il proprio eccezionale saper-fare, ma ogni quadro reca tuttora la traccia del tremore, dell'emozione poetica che ha sempre caratterizzato il lavoro di Lacasella sin da quando era “cucciolo”. E' la singolare situazione della sua pittura, dove la natura eminentemente “mentale” delle visioni convive con una sorta di commosso alone romantico che le avvolge. I nomi di Turner e di Friedrich, spesso citati dai critici di Lacasella, non riguardano soltanto l'assunzione del paesaggio a tema centrale del proprio dipingere, ma lo sforzo, che ha Lacasella in comune coi due grandi artisti ottocenteschi, di rappresentare “la sensazione sia di un irriducibile mistero delle cose sia dell'inafferrabilità del Ding an sich”. Lo scrive Charles Tomlinson, uno dei più cospicui poeti inglesi dei nostri anni. E il riferimento alla kantiana Ding an sich (la Cosa in sé) stimola Tomlinson a parlare, a proposito di questi paesaggi, di “un mondo di luce, oscurità e colore che pochi filosofi hanno trattato o sarebbero capaci di evocare”.
Si tratta naturalmente di paesaggi non naturalisticamente denotati, non riferibili a qualche preciso angolo del mondo. Sono pianure, mari, cieli, montagne; ma sono anche “sensazioni” che di per sé sembrerebbero irrapresentabili, come la vastità e l'infinitezza. Ad accomunare questi quadri è oggi la parola “impronta di paesaggio” che li titola. La parola “impronta” fa pensare alla traccia superstite di qualcosa che è uscita dal quadro, ma di cui suggerisce l'arcana identità. L'infinitezza, in questo caso, è il rimando a quanto resta fuori, ormai scomparso da un tempo indicibile, o forse da poco. E' il sole trovato frugando tra le ceneri del crepuscolo(...)
Nell'atmosfera del crepuscolo molte cose cominciano a svanire dai nostri occhi ma percepiamo che altre gradatamente si stanno rivelando. Proprio come ha scritto Emilio Tadini anni fa di Lacasella: che la sua pittura sembra compiere nello stesso tempo “l'atto di occultare e l'atto di manifestare”.
Da quando sul finire degli anni Ottanta, Lacasella ha abbandonato l'esperienza dell'incisione, col suo discorso in bianco e nero appena animato da vaghe ocre e seppie, il colore ha fatto in lui la sua apparizione quasi in forma castigata e monastica, quasi educato alla lunga ascesi che aveva caratterizzato gli esordi dell'artista. Il colore di Lacasella sembra irradiarsi attraverso deboli accensioni di azzurri, gridellini, rosa sfilacciati di un tramonto già sul punto di spegnersi, pronti a precipitare nel morbido golfo dei neri. Ma dall'apparente sommessità del colore, dal suo prudente accamparsi sui cartoni, si sprigiona una grande forza. Si vedano i due punti minimi di rosso che cavalcano la sospensione elastica e spumeggiante di un'onda, in una delle tante “impronte di paesaggio”, e si vedrà quanto essi siano necessari e intensi. E si veda come, con sfumature e quasi impercettibili variazioni delle tinte, Lacasella isoli la linea dei propri orizzonti ai quali affida il compito di segnare la profondità dello spazio, dal suo scorrere verso la lontananza (...) Fernando Bandini 2000
Certo, un vero artista raggiunge, prima o poi, la consapevolezza della solidità del proprio fare, ed è confortato dai riscontri che riceve in campo nazionale dalla critica più autorizzata. Ma vivere in una piccola città, dove la gloria è talvolta generosamente dispensata a valori incerti e improbabili, ha i suoi risvolti ingrati. Nasce quella sottile inquietudine che si accampa tra una residenzialità convinta e amata, e quel diaframma opaco che quotidianamente ti fa un po' sentire “persona separata”. Una città come Vicenza è un osso duro da rodere, anche per il cane lupo più dentuto; e non si sa quanto questo dipenda da disinformazione, e quanto da presunzione e cieca fiducia in una scala di valori chiusa ad ogni necessario confronto (...)
Si tratta di una mostra che testimonia il grande spessore e l'altezza dei risultati raggiunti. Affermazione, questa, che va doverosamente precisata con un altro rilievo. Non ci troviamo solamente di fronte ad una pacata e conscia maturità che esibisce il proprio eccezionale saper-fare, ma ogni quadro reca tuttora la traccia del tremore, dell'emozione poetica che ha sempre caratterizzato il lavoro di Lacasella sin da quando era “cucciolo”. E' la singolare situazione della sua pittura, dove la natura eminentemente “mentale” delle visioni convive con una sorta di commosso alone romantico che le avvolge. I nomi di Turner e di Friedrich, spesso citati dai critici di Lacasella, non riguardano soltanto l'assunzione del paesaggio a tema centrale del proprio dipingere, ma lo sforzo, che ha Lacasella in comune coi due grandi artisti ottocenteschi, di rappresentare “la sensazione sia di un irriducibile mistero delle cose sia dell'inafferrabilità del Ding an sich”. Lo scrive Charles Tomlinson, uno dei più cospicui poeti inglesi dei nostri anni. E il riferimento alla kantiana Ding an sich (la Cosa in sé) stimola Tomlinson a parlare, a proposito di questi paesaggi, di “un mondo di luce, oscurità e colore che pochi filosofi hanno trattato o sarebbero capaci di evocare”.
Si tratta naturalmente di paesaggi non naturalisticamente denotati, non riferibili a qualche preciso angolo del mondo. Sono pianure, mari, cieli, montagne; ma sono anche “sensazioni” che di per sé sembrerebbero irrapresentabili, come la vastità e l'infinitezza. Ad accomunare questi quadri è oggi la parola “impronta di paesaggio” che li titola. La parola “impronta” fa pensare alla traccia superstite di qualcosa che è uscita dal quadro, ma di cui suggerisce l'arcana identità. L'infinitezza, in questo caso, è il rimando a quanto resta fuori, ormai scomparso da un tempo indicibile, o forse da poco. E' il sole trovato frugando tra le ceneri del crepuscolo(...)
Nell'atmosfera del crepuscolo molte cose cominciano a svanire dai nostri occhi ma percepiamo che altre gradatamente si stanno rivelando. Proprio come ha scritto Emilio Tadini anni fa di Lacasella: che la sua pittura sembra compiere nello stesso tempo “l'atto di occultare e l'atto di manifestare”.
Da quando sul finire degli anni Ottanta, Lacasella ha abbandonato l'esperienza dell'incisione, col suo discorso in bianco e nero appena animato da vaghe ocre e seppie, il colore ha fatto in lui la sua apparizione quasi in forma castigata e monastica, quasi educato alla lunga ascesi che aveva caratterizzato gli esordi dell'artista. Il colore di Lacasella sembra irradiarsi attraverso deboli accensioni di azzurri, gridellini, rosa sfilacciati di un tramonto già sul punto di spegnersi, pronti a precipitare nel morbido golfo dei neri. Ma dall'apparente sommessità del colore, dal suo prudente accamparsi sui cartoni, si sprigiona una grande forza. Si vedano i due punti minimi di rosso che cavalcano la sospensione elastica e spumeggiante di un'onda, in una delle tante “impronte di paesaggio”, e si vedrà quanto essi siano necessari e intensi. E si veda come, con sfumature e quasi impercettibili variazioni delle tinte, Lacasella isoli la linea dei propri orizzonti ai quali affida il compito di segnare la profondità dello spazio, dal suo scorrere verso la lontananza (...) Fernando Bandini 2000