D: Ma tu che tipo di pittore sei? Qual'è il tuo modo di metterti in rapporto con l'opera?
R: Innanzitutto è per me importante andare quotidianamente in studio, non è solo una sorta di antiruggine, ma una cadenza che ora fa parte, che entra dentro alla mia pittura. E anche se la porta talvolta, o spesso ad essere sinceri, mi sembra posta ai limiti di un precipizio, è necessario per me entrare. Esserci. Anche nelle giornate sbagliate, per aggiungere poche cose o cancellarne altre. Il fatto è che, a differenza di molti pittori che non temono i lunghi intervalli ritenendoli a volte rigeneranti o psicologicamente disintossicanti, io questo non me lo posso permettere. Quando per necessità mi capita di fermarmi, anche per una sola settimana, mi accompagna una forte agitazione. Come se avessi bloccato un meccanismo di cui non conosco bene il funzionamento D: Ma questo ripetere, questo perfezionare, questa variante infinita, musicale variazione che ti fa varcare la soglia precipitante dello studio, è qualcosa che tu senti necessario per la tua salute fisica, oppure che tu pensi imprescindibile per la tua pittura? Qualcosa di artistico o di psicologico? R: Naturalmente è necessario per la mia pittura D: E tu pensi che sia una disposizione soltanto tua, caratteriale, se così vogliamo chiamarla, oppure qualcosa che puoi condividere con altri artisti, magari pure con altri coetanei? R: Non saprei. Per me è una condizione indispensabile. Anche se credo che derivi, che mi sia rimasta appiccicata addosso dalla lunga pratica incisoria – nell'incisione, infatti, la fortissima componente tecnica poco sopporta le lunghe pause – oggi però il problema è diverso. Temo fondamentalmente di perdere il filo sottile della mia ricerca, lasciando non altro che impressioni sgrammaticate e confuse. Di perdere la direzione di quel suono, di quel battito notturno che ritorna ritmicamente, che vorrei avvicinare e meglio sentire. Invece sempre s'allontana. Man mano che l'immagine acquista purezza, s'allontana. Coglierne le vibrazioni è per me ogni giorno più emozionante, ma, al contempo, difficile. Se l'impianto figurativo dei miei soggetti spesso si ripete è perché quel suono, che pare uguale, mai si ripete. Mai si ripete la luce, le emozioni. D: Anche qui può essere interessante indagare. L'abbandono dell'incisione coincide con una crisi, una saturazione che ti porta o riporta alla pittura, oppure non c'è un nesso così stretto tra i due momenti, l'abbandono di Itaca e il ritorno di Ulisse in patria? R: Dopo oltre dieci anni e più di trecento lastre incise, lasciare i torchi e riprendere improvvisamente con la pittura è stato un passo decisamente non facile. Temevo, d'altro canto, di rimanere impigliato nelle affascinanti maglie alchemiche dell'incisione. Non più teso verso una mia personale ricerca espressiva, bensì ipnotizzato dagli infiniti effetti che le morsure dell'acido nitrico possono autonomamente dare. Devo aggiungere che con l'incisione, in sostanza, in quel momento, quello che dovevo dire mi sembrava di averlo detto, e la ripetitività andava mascherandosi dietro ad una crescente perizia tecnica D: Che cosa non è stato facile: abbandonare la “perizia” dell'incisore oppure affrontare “l'incognita” del pittore? R: Con la pittura in pratica ho ricominciato da zero, come un principiante, ma purtroppo senza la beata incoscienza di chi inizia. Col tormento di uno che vorrebbe tradurre immediatamente un'idea precisa, già ben formata, ma non sa come fare. Le prime prove erano, e forse non poteva essere diversamente, delle brutte copie delle incisioni. Più comunemente avviene il contrario, quando ciè un pittore per motivi di mercato va in stamperia e insegue erroneamente un modello pittorico che l'incisione non prevede, avendo delle possibilità espressive straordinarie e totalmente indipendenti. A pensarci, persino la mia difficoltà a esprimermi in grandi formati è possibile che derivi dalle misure contenute delle matrici calcografiche. E poco importa se oggi è quasi obbligatorio esibirsi in formati “station wagon”, parecchi artisti infatti sono in grado di consolarmi, da Licini a Morandi, da Klee a Vermer. D: Quello che potrebbe essere interessante chiedersi a questo punto: ma tu avevi già esordito come pittore R: Sì, ma con quadri assai diversi, non troppi grazie al cielo. Alcuni sono riuscito a recuperarli e a distruggerli. Anche le mie prime incisioni erano legate ai miei esordi pittorici, ma quelle mantengono una loro dignità e dunque i rimorsi sono minori D:Rimorsi, una parola che mi sembra illuminante anche per la tua poetica. Forse nell'incisione, rispetto alla tua pittura, c'era più questo senso di oppressione, di carcerazione dei rimorsi... la tua pittura è come più aperta, sfogata, graffiata forse di luce, ma non imprigionata... R: Sì, un'altra urgenza era di liberarmi di ogni elemento architettonico: sbarre, volte, finestre, colonne, nell'incisione imprigionavano volutamente l'immagine, allontanandola e creando un percorso visivo molto simile allo spirito che ha mosso tutta la pittura romantica (Friedrich in particolare). Nel quando, al contrario, l'elemento geometrico perdeva di efficacia D: Perché, forse perché si faceva decorazione? R: Non so bene, o dipendeva da me che non riuscivo a risolvere tecnicamente questi inserimenti oppure è probabile che non ne sentissi più il bisogno. Ero impegnato a inseguire emorivamente il gesto, la luce. Dicevo all'incirca le stesse cose trovando un punto di congiunzione con la pittura informale: una strada nuova, piena d'incognite, ma l'unica da me percorribile D: Pur senza psicologizzare, : forse che dopo tutte quelle architetture sbarrate, quelle griglie ad un tratto hai sentito il bisogno dell'aria, la necessità di uscire all'aperto e 'naturalmente' sei transitato alla pittura... R: Mi sono accorto, effettivamente, che l'immagine poteva anche non crollare senza il sostegno di quelle impalcature, ed è come se, dopo molti anni, avessi improvvisamente aperto le finestre. Portando con me i pittori che ho maggiormente amato: Friedrich, Goya, Hokusai..., ne avvicinavo altri, a me più contemporanei e fino a quel punto ammirati solo istintivamente. Afro, ad esempio, na non solo: guarda caso, generalizzando, quasi tutti legati all'informale
D: Cioè quali? Fautrier, De Stael, Burri? R: burri lo porto volentieri con me, anche perché giustifica il mio carattere: l'incapacità di lasciarmi completamente andare: Mentre, sì, De Stael sicuramente è entrato dentro di me, e anche Fautrier: di lui mi interessa la presenza di quella materia pittorica collocata al centro, è qualcosa che condivido D: Sì, ma la tua materia mi pare, è vero, è presente, centrale, però più trasparente, più liquida, come se nascondesse sempre qualcosa, una tensione... R: Ultimamente procedo più per cancellature che per aggiunte, me ne rendo conto. Di conseguenza il colore è come se tornasse fuori a respirare: velature, sovrapposizioni, stratificazioni cromatiche, raschiature formano un percorso imprevedibile. Non casuale ma imprevedibile. Il mio lavoro sta proprio nel trattenere questa impredibilità D: Mi pare che quel che si sia rafforzato e sia divenuto indispensabile, pur venendo dall'incisione, sia questa necessità ansiosa della serialità, come se ogni quadro finisse e ricominciasse, meglio se “continuasse” in ogni altro, senza soluzione di nessun tipo. Una sorta di continuum infinito; quasi l'irrequietudine generasse pittura...
R: In parte l'ho già spiegata, questa mia sensazione. Posso aggiungere che molto l'ho imparato osservando la complessa semplicità che caratterizza tutta l'arte orientale. Le stampe giapponesi, Hokusai tra i primi naturalmente: quel lento procedere verso un unico punto interiore. Che poi è il solo che giustifica e sostiene un'avventura artistica. Purtroppo mi sono accorto che quel punto è all'orizzonte di ogni pensiero e quanto più ci si avvicina, tanto più s'allontana D: Un problema che è dentro soltanto alla tua pittura, a questa serialità quasi spasmodica, oppure che tu senti anche fuori , in una sorta di spiritualità che non so comunque se avrebbe senso chiamare orientale, anzi... R: Entrambe le cose, anche se faccio fatica a vedere una linea netta di separazione D: Ma proviamo a capire il tuo rapporto più concreto con le opere. Come ti comporti con queste tue perenni varianti, c'è come un'abitudine alla frequentazione? R: Una volta terminato il quadro lo tengo in osservazione per qualche giorno, l'insoddisfazione spesso mi consiglia di riprenderlo in mano. Alla fine lo impacchetto e non lo guardo più, se non in occasione di qualche mostra D: Come subentra il momento dello stacco? Indolentemente, visto che hai appena usato il termine clinico di “messa in osservazione”... te ne liberi, te ne stacchi tranquillamente e subito lo dimentichi oppure... R: Sì, senza drammi. Il quadro mi abbandona e io torno in studio a cercare di riempire qualche altra pagina. Dove abito, alle pareti rarissimamente ho avuto quadri miei, ma di amici e artisti che stimo D: E sai sai staccarti liberamente da un'opera, anche quando prende la via di una galleria o di un collezionista oppure ne soffri? R: Ricordo alcuni dipinti e mi spiace effettivamente averne perso le tracce o non poterli rivedere, ma di solito preferisco guardare i quadri in lavorazione D: Come controlli, quando dipingi, il momento in cui sospendere un quadro? E, soprattutto, esiste mediamente per te un tempo di esecuzione, oppure la “fattura” dipende dalla natura, dalla gestazione dell'opera stessa? R: Il tempo d'esecuzione può essere sorprendentemente veloce o fatto di mille faticosissimi passaggi e ripensamenti. In entrambi i casi non è semplice capire quando l'opera è davvero terminata. Bacon affermava che un quadro irrisolto e fermo da tempo, può improvvisamente essere finito grazie ad una macchia, ad un colpo di straccio o ad un'unica pennellata. Naturalmente questo non accade a tutti quegli artisti che scrupolosamente programmano il proprio lavoro, voglio dire che se, come all'ultima Biennale di Venezia, uno decide di fare di una bicicletta vecchia la propria opera e di appoggiarla alla parete, è difficile che soppra o perda di intensità espressiva se il manubrio guarda a destra oppure a sinistra. Mentre per Bacon il quadro è in quell'ultima pennellata, forse più che nell'intera composizione D: Ma a te, chi è che invia quella minima macchia che ti fa dire che il quadro è finito? L'ispirazione? O il tuo senso critico, estetico? In altre parole, non è che la smania autocritica può diventare una cattiva, una pericolosa consigliera? R: Effettivamente sono consapevole di dover combattere con un crescente senso autocritico, che a volte quasi mi blocca. Più vado avanti e più mi accorgo di quanta distanza separa quel che vorrei fare da quel che riesco a fare. Quel che ho letto da quel che vorrei leggere. Quel che ho visto da quel che vorrei vedere D: Come la mettiamo, allora, che l'insoddisfazione è una molla decisiva per un artista, oppure alla lunga può diventare un limite, un impedimento? R: Quantunque non sia un dato consolatorio, so che per molti è stato così. I veri limiti sono però altrove, forse proprio in una convinta e cieca soddisfazione D: Come a dire che la cultura e l'arte non stanno dalla parte della felicità, della sana pienezza, ma semmai della non-salute.... R: Certamente no, da un punto di vista, evidentemente sì, osservando dal lato opposto. E' un po' come in San Giovanni della Croce: il buio che segnala, esalta la luce. Insomma, io credo che quanto più uno cresce interiormente, tanto più sente calare addosso a sé un velo scuro; e solo lì sotto alcuni interrogativi prendono luce. D: In questa tua visione del mondo, in questa coscienza critica del non-sapere-abbastanza che potrebbe diventare una sorta di paradossale difesa (spesso gli artisti sono anzi convinti di aver letto fin troppo e che la cultura possa essere pericolosa per loro) si potrebbe nascondere un'altra insidia, o meglio, una rischiosa consapevolezza. Appunto quella dell'artista come “lettore” imperfetto del mondo, come lettore mancato di una verità che esiste già altrove, perfetta... R: Secondo me sì. In termini assoluti questa ipotesi – questa consapevolezza – corrisponde, sempre secondo me, a verità D: Ovvero la certezza che se in fondo un artista avesse già potuto vedere o conoscere tutto, in realtà non ci sarebbe più bisogno della sua arte... R: Se l'arte è legata al sentimento, non può che toccare alcune sue corde. Altre vibreranno in altri momenti e occasioni, grazie ad altri artisti: che so... non toccate da Morandi ma da Mondrian. Versioni necessarie in quanto imperfette o, meglio, parziali nella loro straordinaria perfezione. D: A proposito di artisti, a proposito di vicinanze, o di altre inquietudini. Per esempio il percorso di un Morandi dovrebbe esserti caro.... R: Morandi dovrebbe piacermi moltissimo per come ha inteso la pittura. Mi piace, forse non quanto io stesso mi aspettassi, ma mi piace molto. Picasso a parte, un pittore cerca di avvicinarsi a quelle due o tre cose che ha da dire, e benché ci siano artisti materiali e soggetti diversi – apparentemente diversi – sono sempre due o tre cose che hanno da dire. Uno come Schifano, alla fin fine, pur producendo moltissimo non ha detto un numero di cose superiori a Morandi o a Mondrian D: Qualora questo misterioso “qualcosa da dire” lo si potesse poi “dire” davvero in parole povere (un assurdo, ovviamente, ch distruggerebbe ogni presupposto d'arte) tu sapresti “dire” che cos'è per te quel “qualcosa”? Insomma, prova per un attimo a fare il mio mestiere... Attenzione, non ho detto quel che vuoi “dire”, inteso come messaggio. Ma riuscendo a condensare, quello che pensi in fondo di... R: Penso siano delle impronte di paesaggio. Paesaggio non visto o, meglio, non ritratto. Luce e colore subito se ne appropriano fino a cancellarlo, ed allora rimane il profilo appena accennato di un monte, la linea lontana di un orizzonte. Un riflesso d'acqua. Non riesco né voglio abbandonare questo punto di partenza, però poi presto me ne dimentico, per inseguire un segno, una traccia luminosa. Un cammino tra astratto e figurativo D: Effettivamente, guardando queste tue ultime opere, l'elemento figurativo referenziale, sembra sempre più dimenticato... R: Sì', ma esiste. Anche se alla fine è quasi completamente sepolto, esiste. E' incastrato dentro, a volte, appunto, completamente sotto alla materia, ma è parte del dipinto D: Quindi se la vera natura può apparire a noi dimenticata, cancellata, è pur vero che tu ti crei una tua natura interiore, immaginaria, a cui riferirti. Una tua natura creata in studio, artificiale... natura di pittura... R: In effetti mi rendo conto che è curioso, ma io dipingo esclusivamente con la luce al neon e le finestre quasi completamente chiuse, e le chiuderei del tutto se non fosse per gli odori. Quando vedo un mio quadro alla luce naturale ho come un senso di smarrimento, cambiano continuamente i toni, là dove la materia è spessa si formano addirittura nuove ombre. Inconvenienti, comunque, presto rimediabili, non certo paragonabili al motivato dramma martiniano luce-ombra. Ecco perché cerco la luce artificiale, non per fare l' “artistoide” stravagante o isolato alla Gustave Moreau, ma perché ho un'idea di luce, così come ho una mia idea di paesaggio D: Mi aggancio a quanto tu dicevi prima, ma non volevo interrompere il flusso delle tue parole, anche se mi sembrerebbe questo il vero fulcro del nostro dialogo. Tu prima parlavi proprio di questo traguardo di perfezione che vedi sempre più lontano e a cui vorresi adeguarti. Ebbene, è qualcosa che ha a che fare anche con chi scrive di arte. La difficoltà di chi si trova a parlare di arte informale e non sa davvero da dove prendere appiglio, avvio. Ed infatti, anche chi ha scritto di informale, i migliori, come Arcangeli, Tassi, Brandi, hanno sempre dovuto parlarne “storicamente”, facendo confronti, paralleli, intuendo i rapporti e le novità. Ma del “fuoco” imprendibile dell'informale ho l'impressione che sia pressoché impossibile parlare. Tanto è facile, invece, scrivere di arte figurativa: perché lì l'aggancio c'è sempre, c'è sempre un microbo, corrivo forse, di narratività che contamina ma aiuta anche il tutto. Insomma, una spia di visualità a cui puoi aggrapparti. Ecco è proprio a questo proposito che mi sembrava interessante avvicinarmi a quel tuo discorso sul traguardo che sfugge, che si allontana, perché lì intravvedo un elemento caro all'informale (ecco, perché in verità ho preferito il dialogo alla pseudo-lezione, che finge già di sapere). Permettimi che alla fine ti rubi un poco di spazio, ti costringa ad ascoltare le mie domande. Perché a chi scrive, e dunque ha un'ottica lineare, graduale, progrediente (per non dire equivocamente progressiva) interessa molto capire perché il pittore informale, come insomma un pittore inizi il suo quadro, da dove prende origine quell'immagine (paradossalmente) senz'immagine che poi governerà sulla tela o lo condurrà a un qualche risultato. E' dunque un'immagine interiore che preesiste (platonica, se vogliamo) appunto in quel traguardo a cui tenti (aristotelicamente, tomisticamente) di adeguarti, insomma un'idea iperurania (o materialissima) di forma a cui tendere, e che tu trasformi in pittura? Oppure è la pittura stessa, casuale, emotiva, “gettata”, che fa nascere anche dentro di te delle forme che tu stesso scopri poi sulla tela e che determinano il destino “azzardato” dell'immagine-risultato? R: Inizio sempre senza alcun disegno preparatorio, come unica traccia uso una pasta chiara, molto densa e spessa. Dopo qualche giorno, quando è pressoché asciutta, riprendo in mano il quadro e inizio a lavorare su quella traccia con la consapevolezza che non so mai bene dove mi porterà. Mi è più chiaro quello che non devo fare. Ed è con quest'ansia che l'immagine va via via formandosi. Suppongo che non sia così, ma ho l'impressione che non vi sia mai un accumulo di esperienza in grado di suggerirmi un percorso meno incerto D: E per finire, secondo te è più l'artista (come interiorità) che regala qualcosa alla pittura o è la pittura (in quanto materialità) che dà all'artista? In questa inevitabile dialettica tra il pensare e il fare, tra il concetto e la materia, qual'è l'elemento più resistente, più potente e generatore? R: E' più importante la materia quando stimola efficacemente il pensiero, e, viceversa, è più importante il pensiero quando non si piega, non si compiace, non dimostra la sua fragilità, obbligando la materia a seguirlo. Raramente le due cose combaciano, quando accade nasce, a mio avviso, la vera pittura.
R: Innanzitutto è per me importante andare quotidianamente in studio, non è solo una sorta di antiruggine, ma una cadenza che ora fa parte, che entra dentro alla mia pittura. E anche se la porta talvolta, o spesso ad essere sinceri, mi sembra posta ai limiti di un precipizio, è necessario per me entrare. Esserci. Anche nelle giornate sbagliate, per aggiungere poche cose o cancellarne altre. Il fatto è che, a differenza di molti pittori che non temono i lunghi intervalli ritenendoli a volte rigeneranti o psicologicamente disintossicanti, io questo non me lo posso permettere. Quando per necessità mi capita di fermarmi, anche per una sola settimana, mi accompagna una forte agitazione. Come se avessi bloccato un meccanismo di cui non conosco bene il funzionamento D: Ma questo ripetere, questo perfezionare, questa variante infinita, musicale variazione che ti fa varcare la soglia precipitante dello studio, è qualcosa che tu senti necessario per la tua salute fisica, oppure che tu pensi imprescindibile per la tua pittura? Qualcosa di artistico o di psicologico? R: Naturalmente è necessario per la mia pittura D: E tu pensi che sia una disposizione soltanto tua, caratteriale, se così vogliamo chiamarla, oppure qualcosa che puoi condividere con altri artisti, magari pure con altri coetanei? R: Non saprei. Per me è una condizione indispensabile. Anche se credo che derivi, che mi sia rimasta appiccicata addosso dalla lunga pratica incisoria – nell'incisione, infatti, la fortissima componente tecnica poco sopporta le lunghe pause – oggi però il problema è diverso. Temo fondamentalmente di perdere il filo sottile della mia ricerca, lasciando non altro che impressioni sgrammaticate e confuse. Di perdere la direzione di quel suono, di quel battito notturno che ritorna ritmicamente, che vorrei avvicinare e meglio sentire. Invece sempre s'allontana. Man mano che l'immagine acquista purezza, s'allontana. Coglierne le vibrazioni è per me ogni giorno più emozionante, ma, al contempo, difficile. Se l'impianto figurativo dei miei soggetti spesso si ripete è perché quel suono, che pare uguale, mai si ripete. Mai si ripete la luce, le emozioni. D: Anche qui può essere interessante indagare. L'abbandono dell'incisione coincide con una crisi, una saturazione che ti porta o riporta alla pittura, oppure non c'è un nesso così stretto tra i due momenti, l'abbandono di Itaca e il ritorno di Ulisse in patria? R: Dopo oltre dieci anni e più di trecento lastre incise, lasciare i torchi e riprendere improvvisamente con la pittura è stato un passo decisamente non facile. Temevo, d'altro canto, di rimanere impigliato nelle affascinanti maglie alchemiche dell'incisione. Non più teso verso una mia personale ricerca espressiva, bensì ipnotizzato dagli infiniti effetti che le morsure dell'acido nitrico possono autonomamente dare. Devo aggiungere che con l'incisione, in sostanza, in quel momento, quello che dovevo dire mi sembrava di averlo detto, e la ripetitività andava mascherandosi dietro ad una crescente perizia tecnica D: Che cosa non è stato facile: abbandonare la “perizia” dell'incisore oppure affrontare “l'incognita” del pittore? R: Con la pittura in pratica ho ricominciato da zero, come un principiante, ma purtroppo senza la beata incoscienza di chi inizia. Col tormento di uno che vorrebbe tradurre immediatamente un'idea precisa, già ben formata, ma non sa come fare. Le prime prove erano, e forse non poteva essere diversamente, delle brutte copie delle incisioni. Più comunemente avviene il contrario, quando ciè un pittore per motivi di mercato va in stamperia e insegue erroneamente un modello pittorico che l'incisione non prevede, avendo delle possibilità espressive straordinarie e totalmente indipendenti. A pensarci, persino la mia difficoltà a esprimermi in grandi formati è possibile che derivi dalle misure contenute delle matrici calcografiche. E poco importa se oggi è quasi obbligatorio esibirsi in formati “station wagon”, parecchi artisti infatti sono in grado di consolarmi, da Licini a Morandi, da Klee a Vermer. D: Quello che potrebbe essere interessante chiedersi a questo punto: ma tu avevi già esordito come pittore R: Sì, ma con quadri assai diversi, non troppi grazie al cielo. Alcuni sono riuscito a recuperarli e a distruggerli. Anche le mie prime incisioni erano legate ai miei esordi pittorici, ma quelle mantengono una loro dignità e dunque i rimorsi sono minori D:Rimorsi, una parola che mi sembra illuminante anche per la tua poetica. Forse nell'incisione, rispetto alla tua pittura, c'era più questo senso di oppressione, di carcerazione dei rimorsi... la tua pittura è come più aperta, sfogata, graffiata forse di luce, ma non imprigionata... R: Sì, un'altra urgenza era di liberarmi di ogni elemento architettonico: sbarre, volte, finestre, colonne, nell'incisione imprigionavano volutamente l'immagine, allontanandola e creando un percorso visivo molto simile allo spirito che ha mosso tutta la pittura romantica (Friedrich in particolare). Nel quando, al contrario, l'elemento geometrico perdeva di efficacia D: Perché, forse perché si faceva decorazione? R: Non so bene, o dipendeva da me che non riuscivo a risolvere tecnicamente questi inserimenti oppure è probabile che non ne sentissi più il bisogno. Ero impegnato a inseguire emorivamente il gesto, la luce. Dicevo all'incirca le stesse cose trovando un punto di congiunzione con la pittura informale: una strada nuova, piena d'incognite, ma l'unica da me percorribile D: Pur senza psicologizzare, : forse che dopo tutte quelle architetture sbarrate, quelle griglie ad un tratto hai sentito il bisogno dell'aria, la necessità di uscire all'aperto e 'naturalmente' sei transitato alla pittura... R: Mi sono accorto, effettivamente, che l'immagine poteva anche non crollare senza il sostegno di quelle impalcature, ed è come se, dopo molti anni, avessi improvvisamente aperto le finestre. Portando con me i pittori che ho maggiormente amato: Friedrich, Goya, Hokusai..., ne avvicinavo altri, a me più contemporanei e fino a quel punto ammirati solo istintivamente. Afro, ad esempio, na non solo: guarda caso, generalizzando, quasi tutti legati all'informale
D: Cioè quali? Fautrier, De Stael, Burri? R: burri lo porto volentieri con me, anche perché giustifica il mio carattere: l'incapacità di lasciarmi completamente andare: Mentre, sì, De Stael sicuramente è entrato dentro di me, e anche Fautrier: di lui mi interessa la presenza di quella materia pittorica collocata al centro, è qualcosa che condivido D: Sì, ma la tua materia mi pare, è vero, è presente, centrale, però più trasparente, più liquida, come se nascondesse sempre qualcosa, una tensione... R: Ultimamente procedo più per cancellature che per aggiunte, me ne rendo conto. Di conseguenza il colore è come se tornasse fuori a respirare: velature, sovrapposizioni, stratificazioni cromatiche, raschiature formano un percorso imprevedibile. Non casuale ma imprevedibile. Il mio lavoro sta proprio nel trattenere questa impredibilità D: Mi pare che quel che si sia rafforzato e sia divenuto indispensabile, pur venendo dall'incisione, sia questa necessità ansiosa della serialità, come se ogni quadro finisse e ricominciasse, meglio se “continuasse” in ogni altro, senza soluzione di nessun tipo. Una sorta di continuum infinito; quasi l'irrequietudine generasse pittura...
R: In parte l'ho già spiegata, questa mia sensazione. Posso aggiungere che molto l'ho imparato osservando la complessa semplicità che caratterizza tutta l'arte orientale. Le stampe giapponesi, Hokusai tra i primi naturalmente: quel lento procedere verso un unico punto interiore. Che poi è il solo che giustifica e sostiene un'avventura artistica. Purtroppo mi sono accorto che quel punto è all'orizzonte di ogni pensiero e quanto più ci si avvicina, tanto più s'allontana D: Un problema che è dentro soltanto alla tua pittura, a questa serialità quasi spasmodica, oppure che tu senti anche fuori , in una sorta di spiritualità che non so comunque se avrebbe senso chiamare orientale, anzi... R: Entrambe le cose, anche se faccio fatica a vedere una linea netta di separazione D: Ma proviamo a capire il tuo rapporto più concreto con le opere. Come ti comporti con queste tue perenni varianti, c'è come un'abitudine alla frequentazione? R: Una volta terminato il quadro lo tengo in osservazione per qualche giorno, l'insoddisfazione spesso mi consiglia di riprenderlo in mano. Alla fine lo impacchetto e non lo guardo più, se non in occasione di qualche mostra D: Come subentra il momento dello stacco? Indolentemente, visto che hai appena usato il termine clinico di “messa in osservazione”... te ne liberi, te ne stacchi tranquillamente e subito lo dimentichi oppure... R: Sì, senza drammi. Il quadro mi abbandona e io torno in studio a cercare di riempire qualche altra pagina. Dove abito, alle pareti rarissimamente ho avuto quadri miei, ma di amici e artisti che stimo D: E sai sai staccarti liberamente da un'opera, anche quando prende la via di una galleria o di un collezionista oppure ne soffri? R: Ricordo alcuni dipinti e mi spiace effettivamente averne perso le tracce o non poterli rivedere, ma di solito preferisco guardare i quadri in lavorazione D: Come controlli, quando dipingi, il momento in cui sospendere un quadro? E, soprattutto, esiste mediamente per te un tempo di esecuzione, oppure la “fattura” dipende dalla natura, dalla gestazione dell'opera stessa? R: Il tempo d'esecuzione può essere sorprendentemente veloce o fatto di mille faticosissimi passaggi e ripensamenti. In entrambi i casi non è semplice capire quando l'opera è davvero terminata. Bacon affermava che un quadro irrisolto e fermo da tempo, può improvvisamente essere finito grazie ad una macchia, ad un colpo di straccio o ad un'unica pennellata. Naturalmente questo non accade a tutti quegli artisti che scrupolosamente programmano il proprio lavoro, voglio dire che se, come all'ultima Biennale di Venezia, uno decide di fare di una bicicletta vecchia la propria opera e di appoggiarla alla parete, è difficile che soppra o perda di intensità espressiva se il manubrio guarda a destra oppure a sinistra. Mentre per Bacon il quadro è in quell'ultima pennellata, forse più che nell'intera composizione D: Ma a te, chi è che invia quella minima macchia che ti fa dire che il quadro è finito? L'ispirazione? O il tuo senso critico, estetico? In altre parole, non è che la smania autocritica può diventare una cattiva, una pericolosa consigliera? R: Effettivamente sono consapevole di dover combattere con un crescente senso autocritico, che a volte quasi mi blocca. Più vado avanti e più mi accorgo di quanta distanza separa quel che vorrei fare da quel che riesco a fare. Quel che ho letto da quel che vorrei leggere. Quel che ho visto da quel che vorrei vedere D: Come la mettiamo, allora, che l'insoddisfazione è una molla decisiva per un artista, oppure alla lunga può diventare un limite, un impedimento? R: Quantunque non sia un dato consolatorio, so che per molti è stato così. I veri limiti sono però altrove, forse proprio in una convinta e cieca soddisfazione D: Come a dire che la cultura e l'arte non stanno dalla parte della felicità, della sana pienezza, ma semmai della non-salute.... R: Certamente no, da un punto di vista, evidentemente sì, osservando dal lato opposto. E' un po' come in San Giovanni della Croce: il buio che segnala, esalta la luce. Insomma, io credo che quanto più uno cresce interiormente, tanto più sente calare addosso a sé un velo scuro; e solo lì sotto alcuni interrogativi prendono luce. D: In questa tua visione del mondo, in questa coscienza critica del non-sapere-abbastanza che potrebbe diventare una sorta di paradossale difesa (spesso gli artisti sono anzi convinti di aver letto fin troppo e che la cultura possa essere pericolosa per loro) si potrebbe nascondere un'altra insidia, o meglio, una rischiosa consapevolezza. Appunto quella dell'artista come “lettore” imperfetto del mondo, come lettore mancato di una verità che esiste già altrove, perfetta... R: Secondo me sì. In termini assoluti questa ipotesi – questa consapevolezza – corrisponde, sempre secondo me, a verità D: Ovvero la certezza che se in fondo un artista avesse già potuto vedere o conoscere tutto, in realtà non ci sarebbe più bisogno della sua arte... R: Se l'arte è legata al sentimento, non può che toccare alcune sue corde. Altre vibreranno in altri momenti e occasioni, grazie ad altri artisti: che so... non toccate da Morandi ma da Mondrian. Versioni necessarie in quanto imperfette o, meglio, parziali nella loro straordinaria perfezione. D: A proposito di artisti, a proposito di vicinanze, o di altre inquietudini. Per esempio il percorso di un Morandi dovrebbe esserti caro.... R: Morandi dovrebbe piacermi moltissimo per come ha inteso la pittura. Mi piace, forse non quanto io stesso mi aspettassi, ma mi piace molto. Picasso a parte, un pittore cerca di avvicinarsi a quelle due o tre cose che ha da dire, e benché ci siano artisti materiali e soggetti diversi – apparentemente diversi – sono sempre due o tre cose che hanno da dire. Uno come Schifano, alla fin fine, pur producendo moltissimo non ha detto un numero di cose superiori a Morandi o a Mondrian D: Qualora questo misterioso “qualcosa da dire” lo si potesse poi “dire” davvero in parole povere (un assurdo, ovviamente, ch distruggerebbe ogni presupposto d'arte) tu sapresti “dire” che cos'è per te quel “qualcosa”? Insomma, prova per un attimo a fare il mio mestiere... Attenzione, non ho detto quel che vuoi “dire”, inteso come messaggio. Ma riuscendo a condensare, quello che pensi in fondo di... R: Penso siano delle impronte di paesaggio. Paesaggio non visto o, meglio, non ritratto. Luce e colore subito se ne appropriano fino a cancellarlo, ed allora rimane il profilo appena accennato di un monte, la linea lontana di un orizzonte. Un riflesso d'acqua. Non riesco né voglio abbandonare questo punto di partenza, però poi presto me ne dimentico, per inseguire un segno, una traccia luminosa. Un cammino tra astratto e figurativo D: Effettivamente, guardando queste tue ultime opere, l'elemento figurativo referenziale, sembra sempre più dimenticato... R: Sì', ma esiste. Anche se alla fine è quasi completamente sepolto, esiste. E' incastrato dentro, a volte, appunto, completamente sotto alla materia, ma è parte del dipinto D: Quindi se la vera natura può apparire a noi dimenticata, cancellata, è pur vero che tu ti crei una tua natura interiore, immaginaria, a cui riferirti. Una tua natura creata in studio, artificiale... natura di pittura... R: In effetti mi rendo conto che è curioso, ma io dipingo esclusivamente con la luce al neon e le finestre quasi completamente chiuse, e le chiuderei del tutto se non fosse per gli odori. Quando vedo un mio quadro alla luce naturale ho come un senso di smarrimento, cambiano continuamente i toni, là dove la materia è spessa si formano addirittura nuove ombre. Inconvenienti, comunque, presto rimediabili, non certo paragonabili al motivato dramma martiniano luce-ombra. Ecco perché cerco la luce artificiale, non per fare l' “artistoide” stravagante o isolato alla Gustave Moreau, ma perché ho un'idea di luce, così come ho una mia idea di paesaggio D: Mi aggancio a quanto tu dicevi prima, ma non volevo interrompere il flusso delle tue parole, anche se mi sembrerebbe questo il vero fulcro del nostro dialogo. Tu prima parlavi proprio di questo traguardo di perfezione che vedi sempre più lontano e a cui vorresi adeguarti. Ebbene, è qualcosa che ha a che fare anche con chi scrive di arte. La difficoltà di chi si trova a parlare di arte informale e non sa davvero da dove prendere appiglio, avvio. Ed infatti, anche chi ha scritto di informale, i migliori, come Arcangeli, Tassi, Brandi, hanno sempre dovuto parlarne “storicamente”, facendo confronti, paralleli, intuendo i rapporti e le novità. Ma del “fuoco” imprendibile dell'informale ho l'impressione che sia pressoché impossibile parlare. Tanto è facile, invece, scrivere di arte figurativa: perché lì l'aggancio c'è sempre, c'è sempre un microbo, corrivo forse, di narratività che contamina ma aiuta anche il tutto. Insomma, una spia di visualità a cui puoi aggrapparti. Ecco è proprio a questo proposito che mi sembrava interessante avvicinarmi a quel tuo discorso sul traguardo che sfugge, che si allontana, perché lì intravvedo un elemento caro all'informale (ecco, perché in verità ho preferito il dialogo alla pseudo-lezione, che finge già di sapere). Permettimi che alla fine ti rubi un poco di spazio, ti costringa ad ascoltare le mie domande. Perché a chi scrive, e dunque ha un'ottica lineare, graduale, progrediente (per non dire equivocamente progressiva) interessa molto capire perché il pittore informale, come insomma un pittore inizi il suo quadro, da dove prende origine quell'immagine (paradossalmente) senz'immagine che poi governerà sulla tela o lo condurrà a un qualche risultato. E' dunque un'immagine interiore che preesiste (platonica, se vogliamo) appunto in quel traguardo a cui tenti (aristotelicamente, tomisticamente) di adeguarti, insomma un'idea iperurania (o materialissima) di forma a cui tendere, e che tu trasformi in pittura? Oppure è la pittura stessa, casuale, emotiva, “gettata”, che fa nascere anche dentro di te delle forme che tu stesso scopri poi sulla tela e che determinano il destino “azzardato” dell'immagine-risultato? R: Inizio sempre senza alcun disegno preparatorio, come unica traccia uso una pasta chiara, molto densa e spessa. Dopo qualche giorno, quando è pressoché asciutta, riprendo in mano il quadro e inizio a lavorare su quella traccia con la consapevolezza che non so mai bene dove mi porterà. Mi è più chiaro quello che non devo fare. Ed è con quest'ansia che l'immagine va via via formandosi. Suppongo che non sia così, ma ho l'impressione che non vi sia mai un accumulo di esperienza in grado di suggerirmi un percorso meno incerto D: E per finire, secondo te è più l'artista (come interiorità) che regala qualcosa alla pittura o è la pittura (in quanto materialità) che dà all'artista? In questa inevitabile dialettica tra il pensare e il fare, tra il concetto e la materia, qual'è l'elemento più resistente, più potente e generatore? R: E' più importante la materia quando stimola efficacemente il pensiero, e, viceversa, è più importante il pensiero quando non si piega, non si compiace, non dimostra la sua fragilità, obbligando la materia a seguirlo. Raramente le due cose combaciano, quando accade nasce, a mio avviso, la vera pittura.