Sogno e segno nella pittura di Silvio Lacasella A lungo Silvio Lacasella ha avvertito il fascino del paesaggio: di un luogo di natura, traversato dalle memorie della pittura. Così, cieli notturni e turbati, venti cozzanti in gorghi profondi, luci strusciate d’albe e tramonti, e luci bianchissime sulle cime innevate, s’univano, in lui, a figure scese da secoli lontani, da culture visive remote; “da Friedrich, da Hokusai”, secondo quanto ha scritto una volta. In quelle sue cose, trovavano immagine perfetta, allora, una sua fonda vocazione romantica, temperata da una urgenza a dire con poco, quasi con asprezza e certo sinteticamente, il clamore e il tremore del mondo.
Di “solitudine” parlava Roberto Tassi, per dire di quelle immagini di Lacasella, per lo più – allora – immaginate sulla lastra (li ricordo anch’io, splendidi, quei picchi e quei crolli improvvisi, quelle montagne traversate dalle onde del vento e tagliate da lividi lampi che abitavano quei fogli; quei viluppi, quei vortici, quelle profondissime vertigini: lastre oggi, chissà perché, tralasciate). Di “viaggio al termine della notte” ne avrebbe poi detto Vittorio Sgarbi. E quanti son giunti, poi, a seguirne i passi: stupefatti, ogni volta, da tanta bellezza. Scelgo ancora di ridire, ma quasi a caso in una bibliografia sconfinata, le suggestioni di Mario Rigoni Stern, che vide nelle cose di Silvio “il soffio della creazione”, o di Emilio Tadini che scorse nei suoi paesaggi tracce disperse “di qualche sua memoria, di qualche inquietudine”.
Quanto tempo è passato da allora, da quando il talento, che si dichiarò subito fuori di norma, di Lacasella si rivelò ai suoi primi esegeti: tanto numerosi e scelti, che mi occorre adesso chiedere venia dell’indicazione che ne ho data, tanto parziale e lacunosa circa il veridico regesto della critica, diversamente orientata, che s’è occupata della sua opera: un’indicazione così imperfetta che chiama, pretende quasi, una vicenda bibliografica ben altrimenti ricca e diramata, che su Lacasella dovrebbe, a questo punto, essere scritta; perché anche soltanto partendo di lì – dai margini d’una esperienza artistica, quali sono i commenti ch’essa ha saputo nel tempo suscitare – s’intenderebbe appieno lo spessore di questo tragitto creativo.
Siamo stati tutti, probabilmente, male abituati, e poco pronti a riconoscerne l’ampiezza. Male abituati, forse, dalle dimensioni ridotte dei suoi dipinti – come se la vera pittura si misurasse a metri quadri. E ancor più dal modo che Silvio ha di porgerle, quelle sue piccole tavole: come in punta di piedi, ammantandosi di nulla, sussurrandone appena le ragioni. Dal poco, ancora, che han sempre narrato, e che, negli anni, è persino scemato: spogliandosi passo dopo passo d’ogni orgoglio, d’ogni grido, d’ogni sovratono. Sino a rastremarsi, nel tempo, a “poche, pochissime cose: la linea lontana di un orizzonte, il variare improvviso della luce, qualche riflesso d’acqua, il nero di una notte interiore”, ha detto di recente.
Così che è ora infine, davvero, una pittura dell’assenza, questa. Nella quale i trasporti romantici che l’animarono (amori indimenticabili e quasi indistinguibili – “fiori et amori”, avrebbe detto de Pisis – più che testuali suggestioni; dispersi lungo molti secoli e latitudini, ma con passo sovranamente soprastorico e disinteressato ad una corretta filologia: da Friedrich a Böcklin a Hokusai, da Goya a Michelangelo, aveva scritto Silvio ai suoi esordi, senza far gerarchia fra quelle sue predilezioni) hanno ceduto il posto ad uno sguardo denudato sulla realtà di natura sulla quale non s’è stancato di posare lo sguardo: cercandone, però, la parte sua più segreta e irraggiungibile; una sua internità nascosta, segregata, tremante.
Da lì, allora, la sua pittura s’è andata progressivamente liberando sia dal vincolo della rappresentazione, sia dall’egida dei suoi lontani modelli: affondando vieppiù le ragioni del suo esistere nel segno, che scrive ora in affanno la superficie, quasi portandovi il disagio di un animo. E nella stesura, data e cento volte distolta, di un colore insieme dolcissimo e impuro, forse malato; mentre la luce, quella bruciata di un baleno o quella flebile di una candela, buca in lenti fili la pasta pittorica, come cercando quiete. Insieme, è montata un’adesione più intera agli atti, ai modi, agli strumenti fondamentali del dipingere: lontana, certo, dalla calcolata, mentale enumerazione che di essi faceva certa pittura di vocazione analitica che Lacasella vide, e dalla quale prese subito le distanze, quando muoveva i suoi primi passi, all’inizio degli anni Settanta; ma pur un’adesione a cui tanto, e progressivamente sempre più, ha inteso affidare.
Non altrimenti si spiegherebbe quel restringersi del racconto, quell’inibirsi del sogno e dell’avventura della fantasia, e quel montare che si vuole ottuso, sordo, spesso dolente d’un sentimento che è divenuto il nucleo privilegiato e quasi esclusivo del suo fare. Così i luoghi – o i “non luoghi”, come ha scritto: lucidamente riconoscendosi – della sua pittura sono oggi vieppiù paesaggi, soltanto, d’un animo: specchi d’un turbamento che nasce insieme dall’impossibilità a narrare e dalla ostinata volontà di parola. Questo è, adesso, la sua materia, che s’ispessisce sulla tavola fino a farsi grumo, concrezione, lava: scritta poi, solcata aspramente e in affanno dal rovescio del pennello; questo sono le sue luci ancora strusciate, balenanti, ma adesso ancor più interne, quasi sepolte nella forra della natura che le detta; e il suo colore, che rintocca rado, e goccia talora come da una ferita nel grembo della materia che l’accoglie, e gelosamente lo fa suo.
Fabrizio D'Amico – Settembre 2009
Di “solitudine” parlava Roberto Tassi, per dire di quelle immagini di Lacasella, per lo più – allora – immaginate sulla lastra (li ricordo anch’io, splendidi, quei picchi e quei crolli improvvisi, quelle montagne traversate dalle onde del vento e tagliate da lividi lampi che abitavano quei fogli; quei viluppi, quei vortici, quelle profondissime vertigini: lastre oggi, chissà perché, tralasciate). Di “viaggio al termine della notte” ne avrebbe poi detto Vittorio Sgarbi. E quanti son giunti, poi, a seguirne i passi: stupefatti, ogni volta, da tanta bellezza. Scelgo ancora di ridire, ma quasi a caso in una bibliografia sconfinata, le suggestioni di Mario Rigoni Stern, che vide nelle cose di Silvio “il soffio della creazione”, o di Emilio Tadini che scorse nei suoi paesaggi tracce disperse “di qualche sua memoria, di qualche inquietudine”.
Quanto tempo è passato da allora, da quando il talento, che si dichiarò subito fuori di norma, di Lacasella si rivelò ai suoi primi esegeti: tanto numerosi e scelti, che mi occorre adesso chiedere venia dell’indicazione che ne ho data, tanto parziale e lacunosa circa il veridico regesto della critica, diversamente orientata, che s’è occupata della sua opera: un’indicazione così imperfetta che chiama, pretende quasi, una vicenda bibliografica ben altrimenti ricca e diramata, che su Lacasella dovrebbe, a questo punto, essere scritta; perché anche soltanto partendo di lì – dai margini d’una esperienza artistica, quali sono i commenti ch’essa ha saputo nel tempo suscitare – s’intenderebbe appieno lo spessore di questo tragitto creativo.
Siamo stati tutti, probabilmente, male abituati, e poco pronti a riconoscerne l’ampiezza. Male abituati, forse, dalle dimensioni ridotte dei suoi dipinti – come se la vera pittura si misurasse a metri quadri. E ancor più dal modo che Silvio ha di porgerle, quelle sue piccole tavole: come in punta di piedi, ammantandosi di nulla, sussurrandone appena le ragioni. Dal poco, ancora, che han sempre narrato, e che, negli anni, è persino scemato: spogliandosi passo dopo passo d’ogni orgoglio, d’ogni grido, d’ogni sovratono. Sino a rastremarsi, nel tempo, a “poche, pochissime cose: la linea lontana di un orizzonte, il variare improvviso della luce, qualche riflesso d’acqua, il nero di una notte interiore”, ha detto di recente.
Così che è ora infine, davvero, una pittura dell’assenza, questa. Nella quale i trasporti romantici che l’animarono (amori indimenticabili e quasi indistinguibili – “fiori et amori”, avrebbe detto de Pisis – più che testuali suggestioni; dispersi lungo molti secoli e latitudini, ma con passo sovranamente soprastorico e disinteressato ad una corretta filologia: da Friedrich a Böcklin a Hokusai, da Goya a Michelangelo, aveva scritto Silvio ai suoi esordi, senza far gerarchia fra quelle sue predilezioni) hanno ceduto il posto ad uno sguardo denudato sulla realtà di natura sulla quale non s’è stancato di posare lo sguardo: cercandone, però, la parte sua più segreta e irraggiungibile; una sua internità nascosta, segregata, tremante.
Da lì, allora, la sua pittura s’è andata progressivamente liberando sia dal vincolo della rappresentazione, sia dall’egida dei suoi lontani modelli: affondando vieppiù le ragioni del suo esistere nel segno, che scrive ora in affanno la superficie, quasi portandovi il disagio di un animo. E nella stesura, data e cento volte distolta, di un colore insieme dolcissimo e impuro, forse malato; mentre la luce, quella bruciata di un baleno o quella flebile di una candela, buca in lenti fili la pasta pittorica, come cercando quiete. Insieme, è montata un’adesione più intera agli atti, ai modi, agli strumenti fondamentali del dipingere: lontana, certo, dalla calcolata, mentale enumerazione che di essi faceva certa pittura di vocazione analitica che Lacasella vide, e dalla quale prese subito le distanze, quando muoveva i suoi primi passi, all’inizio degli anni Settanta; ma pur un’adesione a cui tanto, e progressivamente sempre più, ha inteso affidare.
Non altrimenti si spiegherebbe quel restringersi del racconto, quell’inibirsi del sogno e dell’avventura della fantasia, e quel montare che si vuole ottuso, sordo, spesso dolente d’un sentimento che è divenuto il nucleo privilegiato e quasi esclusivo del suo fare. Così i luoghi – o i “non luoghi”, come ha scritto: lucidamente riconoscendosi – della sua pittura sono oggi vieppiù paesaggi, soltanto, d’un animo: specchi d’un turbamento che nasce insieme dall’impossibilità a narrare e dalla ostinata volontà di parola. Questo è, adesso, la sua materia, che s’ispessisce sulla tavola fino a farsi grumo, concrezione, lava: scritta poi, solcata aspramente e in affanno dal rovescio del pennello; questo sono le sue luci ancora strusciate, balenanti, ma adesso ancor più interne, quasi sepolte nella forra della natura che le detta; e il suo colore, che rintocca rado, e goccia talora come da una ferita nel grembo della materia che l’accoglie, e gelosamente lo fa suo.
Fabrizio D'Amico – Settembre 2009